martedì 26 luglio 2016

Per capire il nostro presente: due libri di Endre von Ivanka.

Vale la pena leggere Bisanzio. Luogo d'incontro tra pensiero greco e fede cristiana, curato da Michael Konrad e tradotto da me: Endre von Ivanka, un grande amico di Balthasar che ne ha pubblicato alcune opere nel Johannes Verlag, sintetizza genialmente e documenta in modo affascinante i punti nodali dell'incontro fra il fattore cristiano e il mondo culturale tardo-antico mostrando come siano tutt'ora efficaci nella nostra comprensione teologica, filosofica e politica del mondo.

In realtà Ivanka ha scritto un dittico: questo primo libro in cui descrive la dinamica dell'eredità greca all'interno della sfera bizantina, e un secondo che stiamo traducendo adesso, in cui invece traccia il divenire dell'eredità di Roma, sottolineando sopratutto la diversità del suo sviluppo nell'Oriente europeo e nel mondo Occidentale.

Pubblico qui uno stralcio da Bisanzio:

Il merito principale della scuola dei Padri Cappadoci dal punto di vista della storia delle idee sta nell’aver cercato di assolvere al compito di custode dell’ortodossia e della dottrina tradizionalmente trasmessa dalla chiesa partendo dalla filosofia neoplatonica dell’epoca, e così mentre lottava contro l’arianesimo ha di fatto indicato a tutto il pensiero ortodosso successivo – e si può dire: nella chiesa d’Occidente, fino ai nostri giorni – la via di una teologia fondata su basi filosofiche; mentre per l’ Oriente è sempre rimasta paradigmatica la modalità con cui si è in essa costituita la sintesi fra filosofia antica e fede cristiana[1].

Non andremo qui nel dettaglio di come i Padri cappadoci confutarono la dottrina ariana mettendo in atto il concetto platonico di infinito e l’assioma neoplatonico dell’inconcepibilità dell’Uno, laddove la dottrina ariana considera di poter definire concettualmente la sostanza suprema, Dio, come qualcosa di  “ingenerato”, mentre le altre potenze divine sono modalità operative, oppure opere della divina sapienza, deducibili in modo logico da questa sostanza prima: l’accento posto sull’infinità e l’inarrivabilità di Dio, fa svaporare il significato delle differenze ontologiche di gradazione e di valore fra gli esseri, perché nonostante tutte le differenze e distanze reciproche, se poste a confronto con il divino, le entità finite sono tutte ugualmente lontane dall’infinito. E grazie quindi alla messa in opera del termine neoplatonico di “Uno” qualunque tentativo di costruzione architettonica del mondo a partire da Dio, concatenando in modo logico l’emanazione del molteplice dall’Uno, è destinato all’insuccesso e al fallimento[2]

Ciò che è grandioso nei Padri cappadoci – ed è anche decisivo per la successiva storia delle idee – è che essi accolsero come eredità propria il concetto neoplatonico-plotiniano di Dio e gestirono questa eredità impiegandola nella formulazione filosofica della dottrina di fede, ma in un modo tale da lasciare inviolata e assoluta la concezione cristiana del rapporto fra Creatore e creatura, fra Dio e mondo. Fino ad allora la filosofia cristiana era stata messa in pericolo dal tentativo ellenizzante di dedurre filosoficamente il molteplice dall’Uno, dallo sforzo di comprensione volto a ricostruire nel pensiero il procedere del mondo dal fondamento divino. Invece di porre il digradare dalla sommità divina di potenze e forze, tutte sempre di ordine divino, fino a giungere al mondo creato, quale ultima e più bassa emanazione di Dio, i Cappadoci proposero una differenziazione in forza di una maggiore o minore partecipazione al divino, il quale però si libra infinito, altrettanto distante e al di sopra di ogni finita modalità di partecipazione ad esso. Essi dunque hanno saputo rendere fecondo per la metafisica cristiana non solo il concetto neoplatonico-plotiniano di Dio, ma anche quello platonico di partecipazione, la dottrina cioè che ogni essere finito è una forma limitata e finita di partecipazione all’infinito e illimitato Essere in senso pieno: svincolarono il concetto di partecipazione dallo schema dell’emanazione graduale di forme finite dall’essere infinito, e lo applicarono invece alla concezione cristiana del rapporto fra Creatore e creatura.

Rendiamo onore a questo immenso merito, al quale dobbiamo la costituzione della prima filosofia che si possa dire in senso proprio cristiana, e senza del quale verosimilmente non avrebbe mai potuto darsi nessuna sintesi fra il pensiero antico e la concezione cristiana, perché senza l’azione efficace di questa scuola contro l’origenismo e l’arianesimo, nei quali si palesarono chiaramente le tendenze subordinazioniste latenti nel pensiero antico, ci si sarebbe forse abituati a pensare che fra la concezione della chiesa e il pensiero neoplatonico ci fosse un’opposizione invalicabile.




[1] La scuola cappadoce ha avuto una spiccata apertura e un’accoglienza molto ampia per l’aspetto letterario e culturale dell’Antichità, e non solo per quello filosofico. Che fosse poi soprattutto una disponibilità di principio e una sensibilità voluta nei confronti dei valori culturali ed educativi dell’epoca è mostrato nel miglior modo dall’opera di Basilio il Grande sullo studio degli scrittori antichi, dove ci testimonia una posizione molto diversa da quella abituale per i padri della chiesa di quell’epoca, molti dei quali sono culturalmente stati formati nella cultura dell’Antichità e si trovano in modo altrettanto importante sotto il suo influsso, ma senza accettarlo, come ad esempio san Gerolamo.       
[2] L’Autore ha cercato di mostrare nell’articolo “Vom Platonismus zur theorie del Mystik (Zur Erkenntnislehre des Gregor von Nyssa)”, Scholastik XI (1936) p. 163-185 come anche l’epistemologia neoplatonica sia stata fondamentale per la scuola cappadoce, venendo da essa riformulata in modo tale da diventare determinante per il pensiero successivo.

Chi volesse acquistarlo può farlo per esempio qui (è già in saldo!):



Roma

Di seguito pubblico la sintesi che Ivanka propone per la ricezione dell'eredita romana in Oriente e in Occidente.

Per toccar con mano l'importanza di questa materia, basti ricordare che "Novus Ordo Saeclorum", citazione dalle Egloghe di Virgilio, è il motto che gli Stati Uniti stampano fin dal 1935 sul biglietto da 1 dollaro.

L’eredità romana

Se ci si chiedesse quale sia stato il contributo di Roma al patrimonio culturale trasmessoci dall’antichità – sulla cui ricchezza poggiano le fondamenta stesse della coscienza culturale europea – si dovrà convenire che, oltre alle molteplici realizzazioni culturali ed artistiche, Roma ha concepito come suo compito specifico la costituzione di un ordinamento statale che sia nel contempo il migliore e il più universale possibile, non solo come esempio per l’umanità intera, ma finanche come sua norma, perché retto da principi etici e giuridici ai quali chiunque può ragionevolmente e rettamente assentire, sottomettendosi perciò liberamente e non solo per costrizione.

Si tratta dunque di un “impero mondiale” in senso pregnante, che in se stesso e nella propria struttura giuridica include la legittimazione al dominio del mondo, così come dice il verso virgiliano:  

«Altri facciano e plasmino meglio statue di bronzo …
… ma tu / Romano ricorda che i popoli devi al tuo cenno / piegare»[1].

e lo stesso Virgilio altrove fa dire a Giove:

«ho dato ai Romani un dominio infinito».[2]

Nel periodo repubblicano non c’è ancora una coscienza nazionale di questa caratteristica “romanità” perché la consapevolezza della propria superiorità rispetto a tutti gli altri popoli è sì già chiaramente presente in quest’epoca, ma è ancora priva della coscienza di un compito, della convinzione cioè che Roma è chiamata a dominare il mondo intero. Solo durante il regno di Augusto si sviluppa tra i romani la consapevolezza che, in forza di un destino cosmico-sacrale, si va realizzando una forma di vita e un ordinamento del mondo che, per quanto profondamente radicato nelle proprie tradizioni nazionali, possiede un significato universalmente valido, esemplare per l’umanità tutta, e un valore morale assoluto.

La peculiare e caratteristica “tensione ritmica al compimento” di cui sono permeate tutte le opere di epoca augustea sorge da questa consapevolezza. Già Cicerone loda la forma statale romana come la più corrispondente ai principi filosofici dei Greci, i quali non hanno invece mai saputo realizzare una forma di Stato così compiuta. A questo pensiero manca ancora l’aura di predestinazione alla validità universale, all’esemplarità per tutta l’umanità di cui invece Virgilio nell’Eneide circonfonde i primi passi di Enea su suolo italico.

Il pensiero greco si era sforzato di trovare norme universalmente valide per rappresentare le idee di valori spirituali e morali umani, ma non gli si era mai affacciata alla mente la possibilità di realizzare questi valori in un momento storico definito, predisposto dal destino, in una società concreta, e questo con una chiara ambizione all’universalità. Si sarebbe potuto cercare di dar forma secondo le norme filosofiche greche ad una particolare polis, ma mai, partendo da esse, profetizzare un "regno di giustizia e di pace" per il mondo intero. Le generazioni romane precedenti venerarono gli exempla maiorum altrettanto quanto l'epoca augustea, ma come un qualcosa di proprio, di particolare, di attinente solo alla propria patria. All'età augustea fu invece riservato di poterle considerare come la manifestazione di un valore universalmente umano ed esemplare, seppure nella forma specifica dell'identità romana. L'atteggiamento culturale proprio di quest'epoca è costituito dalla volontà di realizzare in modo esemplare il valore custodito nella tradizione patria in modo da conferirgli validità universale. È la volontà di tradurre nella realtà concreta un "impero" di valori morali, di fondare sulla base di ideali morali universalmente validi una comunità di popoli che abbracci il mondo intero, e ancora oltre: è la consapevolezza che tale “impero” si sta realizzando con fatale necessità in forza della volontà divina che imprime nella realtà stessa un rinnovamento cosmico.

a) Imperialismo sacrale

Questa concezione fondamentale dell'epoca augustea ristabilisce il nesso con un'antichissima idea religiosa romana, quella per cui le epoche si susseguono, in un continuo rinnovamento cosmico: l'idea di secolarità. Fu una circostanza dagli esiti imprevedibili il fatto che secondo il calcolo sacrale dovesse aver luogo proprio in quel momento un nuovo "magnus ordo saeculorum" e che non si attendesse dunque solo il sorgere di una nuova epoca ma il ritorno stesso del tempo delle origini, il principio del mondo, l'età dell’oro.

L'opera culturale veramente grande di cui furono capaci i romani di epoca augustea, e della quale troppo raramente è stato riconosciuto il giusto valore, è che partendo dai tratti tradizionali di questa rappresentazione, in buona parte costituiti da una beatitudine puramente materiale da paese della cuccagna - dove il clima atmosferico è sempre favorevole, gli animali feroci sono mansueti e quelli domestici figliano due volte l'anno, dove i campi portano frutto senza che si debba lavorarli e una quantità di altre cose simili - seppero arricchirla del contenuto ereditato dal pensiero greco, dall'umanità greca, dalla loro propria educazione greca. I romani conferirono all'idealità greca un dinamismo, una tensione alla realizzazione in un ordine universale, quale nella grecità essa mai aveva conosciuto. È un processo di sublimazione nel quale da un lato l'antica idea romana delle epoche susseguentesi è connessa con la cultura e la spiritualità greca, e dall'altro il mondo ideale greco si concretizza in forza di un destino che sta per realizzarsi hic et nunc in un ordine universale che trasfigura il mondo reale. L’opera propria dell'epoca augustea, il valore più alto del suo contributo culturale è di aver consegnato al mondo un'idea nuova, ben oltre quella della grecità, un'idea che per l'umanesimo è di fondamentale importanza: la tensione a realizzare una comunità umana universale, che debba la propria universalità al fatto di essere costruita su principi validi per tutti perché esemplarmente umani e moralmente giusti.

È l'intenzione fondamentale del mondo spirituale romano inteso in senso proprio: la questione della possibilità di una comunità umana universale, fondata sulla moralità umana, condivisibile da tutti. A partire da questa intenzione fondamentale è possibile cogliere nella sua logica lo sviluppo della cultura e della storia letteraria latina.

L'età augustea ha questo di grandioso: in forza di un ottimismo peculiare e di un impeto morale realmente audace cercò di realizzare in se stessa questa comunità ideale. La debolezza da cui fu minata fu credere di avere realizzato in via definitiva l’ideale ancorandolo semplicemente a istituzioni esteriori e a modalità di vita definite da leggi, dunque abbandonando la tensione alla sua realizzazione e sostituendovi la sicurezza di avere già realizzato una simile comunità, il "regno dei cieli sulla terra": detto in termini cristiani, la sua debolezza fu un messianismo terreno. 





[1] Excudent alii spirantia mollius aera, …Tu regere imperio populos, Romane, memento”, Virgilio, Eneide, VI, 847-853 (tr. it., 519)
[2] Imperium sine fine dedi”, Virgilio, Eneide, I, 279 (tr. it., 257).


è interessante anche la tabella sinottica che Ivanka propone per la diversa ricezione in Oriente e in Occidente di questa eredità: 

In Occidente la migrazione dei popoli germanici distrugge il quadro che l’impero romano aveva costituito, sorgono nuovi regni retti da condottieri germanici vittoriosi su territori che precedentemente erano dell’impero; dall’unione fra i conquistatori e le popolazioni latinizzate si costituiscono nuove nazioni, che devono in un primo momento riappropriarsi della cultura degli antichi.
La comune appartenenza al cristianesimo e alla Chiesa è l’unico legame che oltrepassa le frontiere nazionali e politiche, mentre la cultura è piuttosto un compito da realizzare che non un patrimonio da amministrare.
Fra sé e gli antichi è frapposta una distanza, e la cultura ereditata deve essere a tutta prima conquistata con sforzo e impegno.
 In Oriente la struttura politica resta intatta (imperatore, esercito, ordine sociale), mentre la divisione fra il centro e i territori periferici caratterizzati anche da diversità nazionale ha luogo a causa di dissensi di ordine religioso (nestoriani siro-orientali, siriaci orientali, monofisiti copti e armeni).
Ci si abitua a che la professione della retta fede, l’appartenenza alla nazione greca e all’impero bizantino siano realtà indivisibili.
La cultura antica (nella sua forma cristianizzata) continua ad esistere senza soluzione di continuità. La si considera identica alla propria tradizione, come un possesso da non mettere in questione, senza che sia necessario riappropriarsene per entrare nuovamente in suo possesso.


Nella concezione occidentale la Chiesa è una comunità sovranazionale di carattere puramente spirituale comprendente in sé popoli e Stati diversi. Se pure incorona un imperatore, lo crea unicamente come protettore supremo della cristianità e non invece come capo e centro di una monarchia universale.
Rispetto all’impero, la Chiesa difende la “libertas” sia del singolo che dei diversi Stati nazionali. Le tendenze occasionali in direzione di una monarchia universale (come per esempio il regno degli Stauffer) sono ricadute in una concezione del potere di stampo orientale.
La condizione propria dell’Occidente è invece una tensione (comprendente anche un rischio) fra l’elemento statale-nazionale da un lato e quello ecclesiastico-spirituale dall’altro.
Nella concezione orientale la Chiesa ortodossa, il popolo bizantino (cioè di nazionalità greca) – la cui autocoscienza si identifica con l’appartenenza all’impero romano – e lo Stato bizantino autocratico e imperiale sono solo i tre aspetti in cui un’unica ed identica comunità sociale, la cui caratteristica è di concepirsi in modo sempre più stringente come “popolo eletto”.
Il legame religioso non genera né una sfera di libertà personale al di là della compagine sociale né un ambito di responsabilità individuale al di là della coercizione del potere statale, ma consolida sempre più il nesso fra la comunità nazionale e quella statale.
In Oriente è perciò presente il rischio di una “Chiesa statale e nazionale” di una compattezza enorme (dal momento che l’appartenenza ecclesiale e quella nazionale vi sono identificate). Si genera così da un lato un popolo dalla cultura enormemente compatta, totalmente compenetrata dalla religione, dall’altro nasce una minaccia immediata alla dimensione universale della fede cristiana.

venerdì 15 luglio 2016

Geniale giudizio degli inglesi. Leave or remain: nessuna delle due campagne percepival’alterità, quanti sono diversi da me, sostanzialmente come un bene, come un valore, proprio come una chiave del nostro desiderio.

Comunione e Liberazione UK
Oggi ci siamo svegliati con un Regno Unito diverso, un’Europa diversa; anzi, un mondo diverso. Per i sostenitori del Brexit vi è un’ansiosa speranza di un futuro indipendente; per i votanti del “Remain” è una rovina totale che porterà alla frantumazione. Comune a tutti, sia nel Regno Unito sia nel Continente, è un senso crescente di disorientamento e una società divisa. Cosa c’è alla radice di questo evento storico?

Alla base sia delle campagne referendarie britanniche sia dei recenti sviluppi socio-politici nel mondo occidentale vi è il desiderio di sicurezza, stabilità e indipendenza, che è innato nella natura umana. Ma tale desiderio può apparire in contrasto con la presenza di altre persone che sembrano sfidare le nostre idee, i nostri progetti e la nostra autonomia – in definitiva il nostro intero essere. Guardando a questo apparente scontro, qual è la soluzione?

 La campagna per il “Leave” argomentava che tale desiderio poteva essere meglio perseguito tagliando il collegamento con l’altro, il diverso, l’incontrollabile – con coloro che non comprendono chi sono io veramente. Dall’altra parte, la campagna per il “Remain” percepiva l’altro come qualcuno da tollerare in primo luogo per un profitto economico. Nessuna delle due campagne percepival’alterità, quanti sono diversi da me, sostanzialmente come un bene, come un valore, proprio come una chiave del nostro desiderio. Infatti, non è un caso che la crisi dell’immigrazione abbia svolto un ruolo centrale nel volgere l’opinione pubblica verso l’uscita dall’Europa Unita. Tuttavia, la sfida dell’alterità rimane, anche dopo il voto per il Brexit.

In realtà, come ha detto recentemente Rowan Williams alLondon Encounter, l’idea che uno possa essere indipendente o autonomo è un mito: la realtà è interconnessa; tutti noi dipendiamo da altri. Come possiamo vivere, in questo momento storico, il rapporto con gli altri esseri umani del mondo, diversi da noi, sia all’interno sia all’esterno dell’Unione Europea? Come possiamo stare insieme in questo paese diviso, tra chi ha votato “Leave” e chi ha votato “Remain”? La sola possibilità è recuperare la convinzione che l’altro è un bene e non un nemico, come ognuno sa e desidera nel profondo del suo cuore. Questa è l’unica speranza possibile in un mondo diviso.

Infatti, l’Unione Europea fu fondata su una tale convinzione. Il seguito di tale convinzione non è destinato a durare per sempre, ma necessita di essere riconquistato da ogni generazione. Che l’altro è un bene non è una dottrina da reimparare, ma può essere riscoperta solo attraverso una continua esperienza di tale verità. Per questo è vitale creare spazi di dialogo, dove la realtà dell’alterità possa essere verificata dall’esperienza – inaspettatamente e quasi scandalosamente – come una chiave del mio desiderio e della comprensione di chi sono io.

 Come ha recentemente sottolineato Papa Francesco: “Se c’è una parola che dobbiamo ripetere fino a stancarci è questa: dialogo. Siamo invitati a promuovere una cultura del dialogo cercando con ogni mezzo di aprire istanze affinché questo sia possibile e ci permetta di ricostruire il tessuto sociale. La cultura del dialogo implica un autentico apprendistato, un’ascesi che ci aiuti a riconoscere l’altro come un interlocutore valido; che ci permetta di guardare lo straniero, il migrante, l’appartenente a un’altra cultura come un soggetto da ascoltare, considerato e apprezzato.” Creare spazi di dialogo per aiutarci a recuperare la certezza del bene dell’altro è più urgente che lamentarsi del passato o preoccuparsi del futuro. Come cristiani, vorremmo offrire questo contributo al nostro paese e al nostro mondo.

 Comunione e Liberazione UK

27/06/2016