In realtà Ivanka ha scritto un dittico: questo primo libro in cui descrive la dinamica dell'eredità greca all'interno della sfera bizantina, e un secondo che stiamo traducendo adesso, in cui invece traccia il divenire dell'eredità di Roma, sottolineando sopratutto la diversità del suo sviluppo nell'Oriente europeo e nel mondo Occidentale.
Pubblico qui uno stralcio da Bisanzio:
Il merito
principale della scuola dei Padri Cappadoci dal punto di vista della storia delle idee sta nell’aver
cercato di assolvere al compito di custode dell’ortodossia e della dottrina
tradizionalmente trasmessa dalla chiesa partendo dalla filosofia neoplatonica dell’epoca,
e così mentre lottava contro l’arianesimo ha di fatto indicato a tutto il
pensiero ortodosso successivo – e si può dire: nella chiesa d’Occidente, fino
ai nostri giorni – la via di una teologia fondata su basi filosofiche; mentre
per l’ Oriente è sempre rimasta paradigmatica la modalità con cui si è in essa
costituita la sintesi fra filosofia antica e fede cristiana[1].
Non andremo qui
nel dettaglio di come i Padri cappadoci confutarono la dottrina ariana mettendo
in atto il concetto platonico di infinito e l’assioma neoplatonico
dell’inconcepibilità dell’Uno, laddove la dottrina ariana considera di poter
definire concettualmente la sostanza suprema, Dio, come qualcosa di “ingenerato”, mentre le altre potenze divine
sono modalità operative, oppure opere della divina sapienza, deducibili in modo
logico da questa sostanza prima: l’accento posto sull’infinità e
l’inarrivabilità di Dio, fa svaporare il significato delle differenze ontologiche
di gradazione e di valore fra gli esseri, perché nonostante tutte le differenze
e distanze reciproche, se poste a confronto con il divino, le entità finite
sono tutte ugualmente lontane dall’infinito.
E grazie quindi alla messa in opera del termine neoplatonico di “Uno” qualunque
tentativo di costruzione architettonica del mondo a partire da Dio,
concatenando in modo logico l’emanazione del molteplice dall’Uno, è destinato
all’insuccesso e al fallimento[2].
Ciò che è
grandioso nei Padri cappadoci – ed è anche decisivo per la successiva storia
delle idee – è che essi accolsero come eredità propria il concetto
neoplatonico-plotiniano di Dio e gestirono questa eredità impiegandola nella
formulazione filosofica della dottrina di fede, ma in un modo tale da lasciare
inviolata e assoluta la concezione cristiana
del rapporto fra Creatore e creatura, fra Dio e mondo. Fino ad allora la
filosofia cristiana era stata messa in pericolo dal tentativo ellenizzante
di dedurre filosoficamente il molteplice dall’Uno, dallo sforzo di comprensione
volto a ricostruire nel pensiero il procedere del mondo dal fondamento divino.
Invece di porre il digradare dalla sommità divina di potenze e forze, tutte
sempre di ordine divino, fino a giungere al mondo creato, quale ultima e più
bassa emanazione di Dio, i Cappadoci proposero una differenziazione in forza di
una maggiore o minore partecipazione al divino, il quale però si libra infinito,
altrettanto distante e al di sopra di ogni finita modalità di partecipazione ad
esso. Essi dunque hanno saputo rendere fecondo per la metafisica cristiana non
solo il concetto neoplatonico-plotiniano di Dio, ma anche quello platonico di
partecipazione, la dottrina cioè che ogni essere finito è una forma limitata e
finita di partecipazione all’infinito e illimitato Essere in senso pieno:
svincolarono il concetto di partecipazione dallo schema dell’emanazione
graduale di forme finite dall’essere infinito, e lo applicarono invece alla
concezione cristiana del rapporto fra Creatore e creatura.
Rendiamo onore a
questo immenso merito, al quale dobbiamo la costituzione della prima filosofia
che si possa dire in senso proprio cristiana, e senza del quale verosimilmente
non avrebbe mai potuto darsi nessuna sintesi fra il pensiero antico e la
concezione cristiana, perché senza l’azione efficace di questa scuola contro
l’origenismo e l’arianesimo, nei quali si palesarono chiaramente le tendenze
subordinazioniste latenti nel pensiero antico, ci si sarebbe forse abituati a pensare
che fra la concezione della chiesa e il pensiero neoplatonico ci fosse
un’opposizione invalicabile.
[1] La scuola cappadoce ha avuto una spiccata apertura e un’accoglienza
molto ampia per l’aspetto letterario e culturale dell’Antichità, e non solo per
quello filosofico. Che fosse poi soprattutto una disponibilità di principio e
una sensibilità voluta nei confronti dei valori culturali ed educativi
dell’epoca è mostrato nel miglior modo dall’opera di Basilio il Grande sullo
studio degli scrittori antichi, dove ci testimonia una posizione molto diversa
da quella abituale per i padri della chiesa di quell’epoca, molti dei quali
sono culturalmente stati formati nella cultura dell’Antichità e si trovano in
modo altrettanto importante sotto il suo influsso, ma senza accettarlo, come ad
esempio san Gerolamo.
[2] L’Autore ha cercato di mostrare nell’articolo “Vom Platonismus zur
theorie del Mystik (Zur Erkenntnislehre des Gregor von Nyssa)”, Scholastik XI (1936) p. 163-185 come
anche l’epistemologia neoplatonica sia stata fondamentale per la scuola
cappadoce, venendo da essa riformulata in modo tale da diventare determinante
per il pensiero successivo.
Chi volesse acquistarlo può farlo per esempio qui (è già in saldo!):
Roma
Di seguito pubblico la sintesi che Ivanka propone per la ricezione dell'eredita romana in Oriente e in Occidente.Per toccar con mano l'importanza di questa materia, basti ricordare che "Novus Ordo Saeclorum", citazione dalle Egloghe di Virgilio, è il motto che gli Stati Uniti stampano fin dal 1935 sul biglietto da 1 dollaro.
L’eredità romana
Se ci si chiedesse quale sia stato il contributo di Roma al patrimonio culturale trasmessoci dall’antichità – sulla cui ricchezza poggiano le fondamenta stesse della coscienza culturale europea – si dovrà convenire che, oltre alle molteplici realizzazioni culturali ed artistiche, Roma ha concepito come suo compito specifico la costituzione di un ordinamento statale che sia nel contempo il migliore e il più universale possibile, non solo come esempio per l’umanità intera, ma finanche come sua norma, perché retto da principi etici e giuridici ai quali chiunque può ragionevolmente e rettamente assentire, sottomettendosi perciò liberamente e non solo per costrizione.
Si tratta dunque
di un “impero mondiale” in senso pregnante, che in se stesso e nella propria
struttura giuridica include la legittimazione al dominio del mondo, così come
dice il verso virgiliano:
«Altri facciano e plasmino meglio statue di bronzo …
… ma
tu / Romano ricorda che i popoli devi al tuo cenno / piegare»[1].
e lo stesso
Virgilio altrove fa dire a Giove:
«ho dato ai Romani un dominio infinito».[2]
Nel periodo
repubblicano non c’è ancora una coscienza nazionale di questa
caratteristica “romanità” perché la consapevolezza della propria superiorità
rispetto a tutti gli altri popoli è sì già chiaramente presente in quest’epoca,
ma è ancora priva della coscienza di un compito, della convinzione cioè che
Roma è chiamata a dominare il mondo intero. Solo durante il regno di Augusto si
sviluppa tra i romani la consapevolezza che, in forza di un destino
cosmico-sacrale, si va realizzando una forma di vita e un ordinamento del mondo
che, per quanto profondamente radicato nelle proprie tradizioni nazionali,
possiede un significato universalmente valido, esemplare per l’umanità tutta, e
un valore morale assoluto.
La peculiare e caratteristica
“tensione ritmica al compimento” di cui sono permeate tutte le opere di epoca
augustea sorge da questa consapevolezza. Già Cicerone loda la forma statale
romana come la più corrispondente ai principi filosofici dei Greci, i quali non
hanno invece mai saputo realizzare una forma di Stato così compiuta. A questo
pensiero manca ancora l’aura di predestinazione alla validità universale, all’esemplarità
per tutta l’umanità di cui invece Virgilio nell’Eneide circonfonde i primi passi di Enea su suolo italico.
Il pensiero greco
si era sforzato di trovare norme universalmente valide per rappresentare le
idee di valori spirituali e morali umani, ma non gli si era mai affacciata alla
mente la possibilità di realizzare questi valori in un momento storico definito,
predisposto dal destino, in una società concreta, e questo con una chiara ambizione
all’universalità. Si
sarebbe potuto cercare di dar forma secondo le norme filosofiche greche ad una
particolare polis, ma mai, partendo da esse, profetizzare un "regno di
giustizia e di pace" per il mondo intero. Le generazioni romane precedenti
venerarono gli exempla maiorum altrettanto
quanto l'epoca augustea, ma come un qualcosa di proprio, di particolare, di
attinente solo alla propria patria. All'età augustea fu invece riservato di poterle
considerare come la manifestazione di un valore universalmente umano ed
esemplare, seppure nella forma specifica dell'identità romana. L'atteggiamento
culturale proprio di quest'epoca è costituito dalla volontà di realizzare in
modo esemplare il valore custodito nella tradizione patria in modo da conferirgli
validità universale. È la volontà di tradurre nella realtà concreta un
"impero" di valori morali, di fondare sulla base di ideali morali universalmente validi una comunità di popoli che abbracci il mondo intero, e ancora oltre: è la consapevolezza che tale “impero”
si sta realizzando con fatale necessità in forza della volontà divina che imprime
nella realtà stessa un rinnovamento cosmico.
a) Imperialismo sacrale
a) Imperialismo sacrale
Questa concezione fondamentale dell'epoca augustea ristabilisce il nesso con un'antichissima idea religiosa romana, quella per cui le epoche si susseguono, in un continuo rinnovamento cosmico: l'idea di secolarità. Fu una circostanza dagli esiti imprevedibili il fatto che secondo il calcolo sacrale dovesse aver luogo proprio in quel momento un nuovo "magnus ordo saeculorum" e che non si attendesse dunque solo il sorgere di una nuova epoca ma il ritorno stesso del tempo delle origini, il principio del mondo, l'età dell’oro.
L'opera
culturale veramente grande di cui furono capaci i romani di epoca augustea, e
della quale troppo raramente è stato riconosciuto il giusto valore, è che
partendo dai tratti tradizionali di questa rappresentazione, in buona parte costituiti
da una beatitudine puramente materiale da paese della cuccagna - dove il clima
atmosferico è sempre favorevole, gli animali feroci sono mansueti e quelli
domestici figliano due volte l'anno, dove i campi portano frutto senza che si
debba lavorarli e una quantità di altre cose simili - seppero arricchirla del contenuto
ereditato dal pensiero greco, dall'umanità greca, dalla loro propria educazione
greca. I romani conferirono all'idealità greca un dinamismo, una tensione alla realizzazione
in un ordine universale, quale nella grecità essa mai aveva conosciuto. È un
processo di sublimazione nel quale da un lato l'antica idea romana delle epoche
susseguentesi è connessa con la cultura e la spiritualità greca, e dall'altro il
mondo ideale greco si concretizza in forza di un destino che sta per
realizzarsi hic et nunc in un ordine
universale che trasfigura il mondo reale. L’opera propria dell'epoca augustea,
il valore più alto del suo contributo culturale è di aver consegnato al mondo un'idea
nuova, ben oltre quella della grecità, un'idea che per l'umanesimo è di fondamentale
importanza: la tensione a realizzare una comunità umana universale, che debba
la propria universalità al fatto di essere costruita su principi validi per
tutti perché esemplarmente umani e moralmente giusti.
È l'intenzione
fondamentale del mondo spirituale romano inteso in senso proprio: la questione
della possibilità di una comunità umana universale, fondata sulla moralità
umana, condivisibile da tutti. A partire da questa intenzione fondamentale è
possibile cogliere nella sua logica lo sviluppo della cultura e della storia
letteraria latina.
L'età
augustea ha questo di grandioso: in forza di un ottimismo peculiare e di un
impeto morale realmente audace cercò di realizzare in se stessa questa comunità
ideale. La debolezza da cui fu minata fu credere di avere realizzato in via
definitiva l’ideale ancorandolo semplicemente a istituzioni esteriori e a
modalità di vita definite da leggi, dunque abbandonando la tensione alla sua
realizzazione e sostituendovi la sicurezza di avere già realizzato una simile
comunità, il "regno dei cieli sulla terra": detto in termini cristiani,
la sua debolezza fu un messianismo terreno.
[1] “Excudent alii spirantia mollius aera,
…Tu regere imperio populos, Romane, memento”, Virgilio,
Eneide, VI, 847-853 (tr. it., 519)
[2] “Imperium sine fine dedi”, Virgilio,
Eneide, I, 279 (tr. it., 257).
è interessante anche la tabella sinottica che Ivanka propone per la diversa ricezione in Oriente e in Occidente di questa eredità:
In Occidente la migrazione dei popoli germanici
distrugge il quadro che l’impero romano aveva costituito, sorgono nuovi regni
retti da condottieri germanici vittoriosi su territori che precedentemente
erano dell’impero; dall’unione fra i conquistatori e le popolazioni
latinizzate si costituiscono nuove nazioni, che devono in un primo momento riappropriarsi
della cultura degli antichi.
La comune appartenenza al cristianesimo e alla Chiesa è l’unico legame che
oltrepassa le frontiere nazionali e politiche, mentre la cultura è piuttosto un compito da
realizzare che non un patrimonio da amministrare.
Fra sé e gli antichi è frapposta una
distanza, e la cultura ereditata deve essere a tutta prima conquistata con
sforzo e impegno.
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In Oriente la struttura politica resta
intatta (imperatore, esercito, ordine sociale), mentre la divisione fra il
centro e i territori periferici caratterizzati anche da diversità nazionale ha luogo a causa di dissensi di ordine
religioso (nestoriani siro-orientali, siriaci orientali, monofisiti copti
e armeni).
Ci si abitua a che la professione della retta fede,
l’appartenenza alla nazione greca e all’impero bizantino siano realtà
indivisibili.
La cultura antica (nella sua forma cristianizzata)
continua ad esistere senza soluzione di continuità. La si considera identica
alla propria tradizione, come un
possesso da non mettere in questione, senza che sia necessario
riappropriarsene per entrare nuovamente in suo possesso.
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Nella concezione occidentale la Chiesa è
una comunità sovranazionale di
carattere puramente spirituale comprendente in sé popoli e Stati diversi.
Se pure incorona un imperatore, lo crea unicamente come protettore supremo
della cristianità e non invece come capo e centro di una monarchia
universale.
Rispetto all’impero, la Chiesa difende
la “libertas” sia del singolo che dei diversi Stati nazionali. Le tendenze
occasionali in direzione di una monarchia universale (come per esempio il
regno degli Stauffer) sono ricadute in una concezione del potere di stampo
orientale.
La condizione propria dell’Occidente è
invece una tensione (comprendente anche un rischio) fra l’elemento
statale-nazionale da un lato e quello ecclesiastico-spirituale dall’altro.
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Nella concezione orientale la Chiesa
ortodossa, il popolo bizantino (cioè di nazionalità greca) – la cui
autocoscienza si identifica con l’appartenenza all’impero romano – e lo Stato
bizantino autocratico e imperiale sono solo i tre aspetti in cui un’unica ed
identica comunità sociale, la cui caratteristica è di concepirsi in modo
sempre più stringente come “popolo eletto”.
Il legame religioso non genera né una
sfera di libertà personale al di là della compagine sociale né un ambito di
responsabilità individuale al di là della coercizione del potere statale, ma consolida
sempre più il nesso fra la comunità nazionale e quella statale.
In Oriente è perciò presente il rischio
di una “Chiesa statale e nazionale” di una compattezza enorme (dal momento
che l’appartenenza ecclesiale e quella nazionale vi sono identificate). Si
genera così da un lato un popolo dalla cultura enormemente compatta,
totalmente compenetrata dalla religione, dall’altro nasce una minaccia immediata
alla dimensione universale della fede cristiana.
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