lunedì 22 gennaio 2018

Consapevoli di sé con allegria, con negli occhi lo sguardo con cui Cristo ci chiama, amando in modo contagioso


INCONTRO CON I SACERDOTI, I RELIGIOSI, LE RELIGIOSE E I SEMINARISTI DELLE
CIRCOSCRIZIONI ECCLESIASTICHE DEL NORD DEL PERÙ
DISCORSO DEL SANTO PADRE
Collegio Seminario San Carlos y San Marcelo (Trujillo)
Sabato, 20 gennaio 2018



Cari fratelli e sorelle, buonasera!
[grande applauso] Siccome è consuetudine che l’applauso sia alla fine, vuol dire che già è finito, allora me ne vado… [gridano: No!] Ringrazio per le parole che Mons. José Antonio Eguren Anselmi, Arcivescovo di Piura, mi ha rivolto a nome di tutti i presenti.
Incontrarmi con voi, conoscervi, ascoltarvi e manifestare l’amore per il Signore e per la missione che ci ha donato è importante. So che avete fatto un grande sforzo per essere qui, grazie!
Ci accoglie questo Collegio Seminario, uno dei primi ad essere fondati in America Latina per la formazione di tante generazioni di evangelizzatori. Essere qui e insieme a voi fa percepire che ci troviamo in una di quelle “culle” che hanno dato alla luce tanti missionari. E non dimentico che questa terra ha visto morire, mentre era in missione – non seduto dietro a una scrivania –, San Toribio de Mogrovejo, patrono dell’Episcopato Latino-americano. E tutto ciò ci porta a guardare alle nostre radici, a quello che ci sostiene nel corso del tempo, ci sostiene nel corso della storia per crescere verso l’alto e portare frutto. Le radici. Senza radici non ci sono fiori, non ci sono frutti. Diceva un poeta che tutto quello che l’albero ha di fiorito gli viene da quello che ha sottoterra, le radici. Le nostre vocazioni avranno sempre quella duplice dimensione: radici nella terra e cuore nel cielo. Non dimenticate questo. Quando manca una di queste due, qualcosa comincia ad andare male e la nostra vita a poco a poco marcisce (cfr Lc 13,6-9), come un albero che non ha radici, marcisce. E vi dico che fa molto male vedere un vescovo, un sacerdote, una suora, “marciti”. E ancora più pena mi dà quando vedo seminaristi “marciti”. Questa è una cosa molto seria. La Chiesa è buona, la Chiesa è madre, e se voi vedete che non ce la fate, per favore, parlate finché siete in tempo, prima che sia tardi, prima di rendervi conto di non avere più radici e che state marcendo; così c’è ancora tempo per salvare, perché Gesù è venuto per questo, per salvare, e se ci ha chiamato è per salvare.
Mi piace sottolineare che la nostra fede, la nostra vocazione è ricca di memoria, quella dimensione deuteronomica della vita. Ricca di memoria perché sa riconoscere che né la vita, né la fede, né la Chiesa sono iniziate con la nascita di qualcuno di noi: la memoria si rivolge al passato per trovare la linfa che ha irrigato nei secoli il cuore dei discepoli, e in tal modo riconosce il passaggio di Dio nella vita del suo popolo. Memoria della promessa che Egli ha fatto ai nostri padri e che, quando rimane viva in mezzo a noi, è causa della nostra gioia e ci fa cantare: «Grandi cose ha fatto il Signore per noi: eravamo pieni di gioia» (Sal 125,3).
Mi piacerebbe condividere con voi alcune virtù, o alcune dimensioni, se preferite, di questo essere ricchi di memoria. Quando io dico che amo che un vescovo, un sacerdote, un seminarista sia ricco di memoria, cosa voglio dire? E’ questo che adesso vorrei condividere.
1. Una dimensione è la gioiosa coscienza di sé. Non bisogna essere incoscienti di sé stessi, no; sapere cosa sta succedendo, ma una gioiosa coscienza di sé.
Il Vangelo che abbiamo ascoltato (cfr Gv 1,35-42) lo leggiamo abitualmente in chiave vocazionale e così ci soffermiamo sull’incontro dei discepoli con Gesù. Mi piacerebbe, però, prima, guardare a Giovanni Battista. Egli stava con due dei suoi discepoli e vedendo passare Gesù dice loro: «Ecco l’Agnello di Dio» (Gv 1,36). Sentendo questo, che cosa è successo? Hanno lasciato Giovanni e sono andati con l’altro (cfr v. 37). E’ qualcosa di sorprendente: erano stati con Giovanni, sapevano che era un uomo buono, anzi, il più grande tra i nati di donna, come Gesù lo definisce (cfr Mt 11,11), però non era colui che doveva venire. Anche Giovanni aspettava un altro più grande di lui. Giovanni aveva ben chiaro di non essere il Messia ma semplicemente colui che lo annunciava. Giovanni era l’uomo ricco della memoria della promessa e della propria storia. Era famoso, aveva una grande fama, tutti venivano a farsi battezzare da lui, lo ascoltavano con rispetto. La gente credeva che lui fosse il Messia, ma lui era ricco di memoria della propria storia e non si è lasciato ingannare dall’incenso della vanità.
Giovanni manifesta la coscienza del discepolo che sa che non è e non sarà mai il Messia, ma solo uno chiamato a indicare il passaggio del Signore nella vita della sua gente. Mi impressiona come Dio permetta che questo arrivi fino alle estreme conseguenze: muore decapitato in una cella, così semplicemente. Noi consacrati non siamo chiamati a soppiantare il Signore, né con le nostre opere, né con le nostre missioni, né con le innumerevoli attività che abbiamo da fare. Io quando dico “consacrati” comprendo tutti: vescovi, sacerdoti, uomini e donne consacrati e consacrate, religiosi e religiose, e seminaristi. Semplicemente ci viene chiesto di lavorare con il Signore, fianco a fianco, ma senza mai dimenticare che non occupiamo il suo posto. E questo non ci fa “afflosciare” nell’impegno di evangelizzare, ma al contrario, ci spinge, ci chiede di lavorare ricordando che siamo discepoli dell’unico Maestro. Il discepolo sa che asseconda e sempre asseconderà il Maestro. E questa è la fonte della nostra gioia, la gioiosa coscienza di sé.
Ci fa bene sapere che non siamo il Messia! Ci libera dal crederci troppo importanti, troppo occupati (è tipico di alcune zone sentire: “No, non andare in quella parrocchia perché il sacerdote è sempre molto occupato”). Giovanni Battista sapeva che la sua missione era indicare la strada, iniziare processi, aprire spazi, annunciare che un Altro era colui che portava lo Spirito di Dio. Essere ricchi di memoria ci libera dalla tentazione dei messianismi, che io mi creda il Messia.
Questa tentazione si combatte in molti modi, ma anche col saper ridere. Di un religioso a cui volevo molto bene – un gesuita, un gesuita olandese che è morto l’anno scorso – si diceva che avesse un tale senso dell’umorismo che era capace di ridere di tutto quello che succedeva, di sé stesso e anche della propria ombra. Coscienza gioiosa. Imparare a ridere di sé stessi ci dà la capacità spirituale di stare davanti al Signore coi propri limiti, errori e peccati, ma anche coi propri successi, e con la gioia di sapere che Egli è al nostro fianco. Un bel test spirituale è quello di interrogarci sulla capacità che abbiamo di ridere di noi stessi. Degli altri è facile ridere – vero? –, “spellarli vivi”, ma ridere di noi stessi non è facile. Ridere ci salva dal neopelagianesimo «autoreferenziale e prometeico di coloro che in definitiva fanno affidamento unicamente sulle proprie forze e si sentono superiori agli altri».[1] Ridi. Ridete in comunità, e non della comunità o degli altri! Guardiamoci da quelle persone così importanti che nella vita hanno dimenticato come si fa a sorridere. “Sì, Padre, però lei non ha un rimedio, qualcosa per…?”. Guarda, ho due “pastiglie” che aiutano moltissimo: una, parla con Gesù, con la Madonna nella preghiera e chiedi la grazia della gioia, della gioia nella situazione reale; la seconda pastiglia la puoi prendere varie volte al giorno se ne hai bisogno, o anche una volta basta: guardati allo specchio…, guardati allo specchio: “E quello sono io? Quella sono io? [fa una risata]”. E questo ti fa ridere. Questo non è narcisismo, anzi, è il contrario: lo specchio, in questo caso, serve come una cura.
Dunque, la prima cosa era la gioiosa coscienza di sé stessi.

2. La seconda è l’ora della chiamata, farci carico dell’ora della chiamata.
Giovanni l’Evangelista riporta nel suo Vangelo persino l’ora di quel momento che cambiò la sua vita. Sì, quando il Signore fa crescere in una persona la coscienza di essere chiamata…, si ricorda quando è incominciato tutto: «Erano circa le quattro del pomeriggio» (1,39). L’incontro con Gesù cambia la vita, stabilisce un prima e un poi. Fa bene ricordare sempre quell’ora, quel giorno-chiave per ciascuno di noi, nel quale ci siamo accorti, seriamente, che quello che sentivo non era una voglia o un’attrazione ma che il Signore si aspettava qualcosa di più. E allora ci si può ricordare: quel giorno mi sono reso conto. La memoria di quell’ora in cui siamo stati toccati dal suo sguardo.
Quando ci dimentichiamo di questa ora, ci dimentichiamo delle nostre origini, delle nostre radici; e perdendo queste coordinate fondamentali mettiamo da parte la cosa più preziosa che una persona consacrata può avere: lo sguardo del Signore. “No, Padre, io guardo il Signore nel tabernacolo”. Va bene, questo va bene. Ma siediti un momento, e lasciati guardare, e ricorda le volte in cui Lui ti ha guardato e ti sta guardando. Lasciati guardare da Lui”. E’ la cosa più preziosa che ha un consacrato: lo sguardo del Signore. Forse non sei contento del luogo dove ti ha incontrato il Signore, forse non si adegua a una situazione ideale o che ti “sarebbe piaciuta di più”. Eppure è stato lì che ti ha incontrato e ha curato le tue ferite, lì. Ciascuno di noi conosce il dove e il quando: forse in un momento di situazioni complicate, di situazioni dolorose, sì; ma lì ti ha incontrato il Dio della Vita per renderti testimone della sua Vita, per renderti parte della sua missione e farti essere, con Lui, carezza di Dio per molti. Ci fa bene ricordare che le nostre vocazioni sono una chiamata di amore per amare, per servire. Non per prendere una “fetta” per noi stessi. Se il Signore si è innamorato di voi e vi ha scelti, non è stato perché eravate più numerosi degli altri, anzi siete il popolo più piccolo, ma per amore (cfr Dt 7,7-8)! Così dice il Deuteronomio al popolo di Israele. Non darti tante arie: non sei il popolo più importante, no, sei un po’ scadente, ma Lui si è innamorato di questo, e allora, che volete?, il Signore non ha buon gusto, si è innamorato di questo… Amore viscerale, amore di misericordia che commuove le nostre viscere per andare a servire gli altri alla maniera di Gesù Cristo. Non alla maniera dei farisei, dei sadducei, dei dottori della legge, degli zeloti, no, no, quelli cercavano la loro gloria.
Vorrei soffermarmi su un aspetto che considero importante. Molti, nel momento di entrare in Seminario o nella casa di formazione o al noviziato, eravamo formati con la fede delle nostre famiglie e delle persone vicine. Lì abbiamo imparato a pregare, dalla mamma, dalla nonna, dalla zia, e poi è stata la catechista che ci ha preparato… E così abbiamo fatto i nostri primi passi, appoggiati non di rado alle manifestazioni di pietà e spiritualità popolare che in Perù hanno trovato le forme più stupende e il radicamento nel popolo fedele e semplice. Il vostro popolo ha dimostrato un enorme affetto per Gesù, la Madonna, per i Santi e i Beati, con tante devozioni che non oso nominare per timore di tralasciarne qualcuna. In quei santuari, «molti pellegrini prendono decisioni che segnano la loro vita. Quelle pareti racchiudono molte storie di conversione, di perdono e di doni ricevuti, che milioni di persone potrebbero raccontare».[2] Anche molte delle vostre vocazioni possono essere impresse tra quelle pareti. Vi esorto, per favore, a non dimenticare, e tanto meno a disprezzare, la fede semplice e fedele del vostro popolo. Sappiate accogliere, accompagnare e stimolare l’incontro con il Signore. Non trasformatevi in professionisti del sacro che si dimenticano del loro popolo, da dove vi ha tratto il Signore: “da dietro il gregge”, come dice il Signore al suo eletto [Davide] nella Bibbia. Non perdete la memoria e il rispetto per coloro che vi hanno insegnato a pregare.
Mi è successo che, in riunioni con maestri e maestre di novizi, o rettori di seminari, padri spirituali di seminario, è uscita la domanda: “Come insegniamo a pregare a quelli che entrano?”. Allora, danno dei manuali per imparare a meditare – a me lo hanno dato quando sono entrato. “Per questo fai così”, “quello no”, “prima devi fare questo”, “poi quest’altro passo”… E in generale, gli uomini e le donne più saggi, che hanno questo incarico di maestri di novizi, di padri spirituali, di direttori spirituali dei seminari, scelgono: “Continua a pregare come ti hanno insegnato a casa”. E poi, a poco a poco, li fanno avanzare in un altro tipo di preghiera. Ma prima: “continua a pregare come ti ha insegnato tua madre, come ti ha insegnato tua nonna”; che del resto è il consiglio che San Paolo dà a Timoteo: “La fede di tua madre e di tua nonna: è questa che devi seguire”. Non disprezzate la preghiera di casa, perché è la più forte.
Ricordare l’ora della chiamata, fare memoria gioiosa del passaggio di Gesù nella nostra vita, ci aiuterà a dire quella bella preghiera di San Francisco Solano, grande predicatore e amico dei poveri: «Mio buon Gesù, mio Redentore e amico. Che cosa possiedo che Tu non mi abbia dato? Che cosa so che Tu non mi abbia insegnato?».
In questo modo, il religioso, il sacerdote, la consacrata, il consacrato, il seminarista è una persona ricca di memoria, gioiosa e riconoscente: trinomio da fissare e da tenere come “arma” di fronte ad ogni “mascheramento” vocazionale. La coscienza grata allarga il cuore e ci stimola al servizio. Senza gratitudine possiamo essere buoni esecutori del sacro, ma ci mancherà l’unzione dello Spirito per diventare servitori dei nostri fratelli, specialmente dei più poveri. Il Popolo fedele di Dio possiede l’olfatto e sa distinguere tra il funzionario del sacro e il servitore grato. Sa distinguere chi è ricco di memoria e chi è smemorato. Il Popolo di Dio sa sopportare, ma riconosce chi lo serve e lo cura con l’olio della gioia e della gratitudine. In questo lasciatevi consigliare dal popolo di Dio. Qualche volta, nelle parrocchie, succede che quando il sacerdote si perde un po’ e si dimentica della sua gente – sto parlando di storie reali, non è vero? – quante volte la signora anziana della sacrestia – come la chiamano: “la vecchia della sagrestia” – gli dice: “Caro padre, quanto tempo è che non va a trovare sua mamma? Vada, vada a trovare sua mamma, che noi per una settimana ci arrangiamo col Rosario”.

3. Terzo, la gioia contagiosa. La gioia è contagiosa quando è vera. Andrea era uno dei discepoli di Giovanni Battista che aveva seguito Gesù quel giorno. Dopo essere stato con Lui e aver visto dove viveva, tornò a casa di suo fratello Simon Pietro e gli disse: «Abbiamo trovato il Messia» (Gv 1,41). E lì fu contagiato. Questa è la notizia più grande che poteva dargli, e lo condusse a Gesù. La fede in Gesù è contagiosa. E se c’è un sacerdote, un vescovo, una suora, un seminarista, un consacrato che non contagia, è un asettico, è da laboratorio. Che esca e si sporchi un po’ le mani e poi incomincerà a contagiare l’amore di Gesù. La fede in Gesù è contagiosa, non può essere confinata né rinchiusa; e qui si vede la fecondità della testimonianza: i discepoli appena chiamati attraggono a loro volta altri mediante la loro testimonianza di fede, allo stesso modo in cui, nel brano evangelico, Gesù ci chiama per mezzo di altri. La missione scaturisce spontanea dall’incontro con Cristo. Andrea inizia il suo apostolato dai più vicini, da suo fratello Simone, quasi come qualcosa di naturale, irradiando gioia. Questo è il miglior segno del fatto che abbiamo “scoperto” il Messia. La gioia contagiosa è una costante nel cuore degli Apostoli, e la vediamo nella forza con cui Andrea confida a suo fratello: “Lo abbiamo incontrato!”. Dunque «la gioia del Vangelo riempie il cuore e la vita intera di coloro che si incontrano con Gesù. Coloro che si lasciano salvare da Lui sono liberati dal peccato, dalla tristezza, dal vuoto interiore, dall’isolamento. Con Gesù Cristo sempre nasce e rinasce la gioia».[3] E questa è contagiosa.
Questa gioia ci apre agli altri, è una gioia non da tenere per sé, ma da trasmettere. Nel mondo frammentato in cui ci è dato di vivere, che ci spinge ad isolarci, la sfida per noi è essere artefici e profeti di comunità. Voi lo sapete, nessuno si salva da solo. E in questo vorrei essere chiaro. La frammentazione e l’isolamento non è qualcosa che si verifica “fuori”, come se fosse solo un problema del “mondo” in cui ci tocca vivere. Fratelli, le divisioni, le guerre, gli isolamenti li viviamo anche dentro le nostre comunità, dentro i nostri presbitéri, dentro le nostre Conferenze episcopali, e quanto male ci fanno! Gesù ci invia ad essere portatori di comunione, di unità, ma tante volte sembra che lo facciamo disuniti e, quello che è peggio, facendoci spesso gli sgambetti a vicenda. O mi sbaglio? [rispondono: No!] Chiniamo la testa e ciascuno “metta nel proprio sacco” quello gli tocca. Ci è chiesto di essere artefici di comunione e di unità; che non equivale a pensare tutti allo stesso modo, fare tutti le stesse cose. Significa apprezzare gli apporti, le differenze, il dono dei carismi all’interno della Chiesa sapendo che ciascuno, a partire dalla propria specificità, offre il proprio contributo, ma ha bisogno degli altri. Solo il Signore ha la pienezza dei doni, solo Lui è il Messia. E ha voluto distribuire i suoi doni in maniera tale che tutti possiamo offrire il nostro arricchendoci con quelli degli altri. Occorre guardarsi dalla tentazione del “figlio unico” che vuole tutto per sé, perché non ha con chi condividere. E’ viziato il ragazzo! A coloro che devono esercitare incarichi nel servizio dell’autorità chiedo, per favore, di non diventare autoreferenziali; cercate di prendervi cura dei vostri fratelli, fate in modo che stiano bene, perché il bene è contagioso. Non cadiamo nella trappola di un’autorità che si trasforma in autoritarismo dimenticando che, prima di tutto, è una missione di servizio. Quelli che hanno questa missione di essere autorità, riflettano bene: negli eserciti ci sono abbastanza sergenti, non c’è bisogno di metterli nella nostra comunità.
Vorrei dire, prima di concludere: essere ricchi di memoria e avere radici. Ritengo importante che nelle nostre comunità, nei nostri presbitéri si mantenga viva la memoria e ci sia il dialogo tra i più giovani e i più anziani. I più anziani sono ricchi di memoria e ci danno la memoria. Dobbiamo andare a riceverla, non lasciamoli soli. Loro [gli anziani], a volte, non vogliono parlare, qualcuno si sente un po’ abbandonato… Facciamolo parlare, soprattutto voi giovani. Quelli chi hanno l’incarico della formazione dei giovani, dicano loro di parlare coi sacerdoti anziani, con le suore anziane, con i vescovi anziani… - Dicono che le suore non invecchiano perché sono eterne! – dite loro di parlare. Gli anziani hanno bisogno che facciate loro brillare gli occhi e che vedano che nella Chiesa, nel presbiterio, nella Conferenza episcopale, nel convento ci sono giovani che portano avanti il corpo della Chiesa. Che li sentano parlare, che i giovani facciano domande a loro, e così a loro incominceranno a brillare gli occhi, e incominceranno a sognare. Fate sognare gli anziani. E’ la profezia di Gioele 3,1. Fate sognare gli anziani. E se i giovani fanno sognare gli anziani, vi assicuro che gli anziani faranno profetizzare i giovani.
Andare alle radici. Per questo volevo – sto già terminando – citare un Santo Padre, ma non me ne viene in mente nessuno. Ma citerò un Nunzio apostolico. Lui mi diceva, parlando di questo, un antico proverbio africano che ha imparato quando era lì – perché i Nunzi apostolici prima passano per l’Africa e lì imparano molte cose – e il proverbio era: “I giovani camminano velocemente – e lo devono fare –, ma sono i vecchi che conoscono la strada”. Va bene?

Cari fratelli, nuovamente grazie; e che questa memoria deuteronomica ci renda più gioiosi e grati per essere servitori di unità in mezzo al nostro popolo. Lasciatevi guardare dal Signore; andate a cercare il Signore, lì, nella memoria. Guardatevi allo specchio, ogni tanto. E che il Signore vi benedica, la Vergine Santa vi protegga, e qualche volta, come dicono in campagna, “fatemi” una preghiera. Grazie!

[1] Esort. Ap. Evangelii gaudium, 94.
[2] Cfr V Conferenza Generale dell’Episcopato Latino-americano e dei Caraibi, Documento di Aparecida (29 giugno 2007), 260.
[3] Esort. Ap. Evangelii gaudium, 1.