Dalla RTSI riprendiamo il dibattito sulle "destre" di sabato scorso:
MOBY DICK
Sabato 11 febbraio 2017 alle 10:00
p://www.rsi.ch/rete-due/programmi/cultura/moby-dick/A-destra-tutta%E2%80%A6-Ma-dov
Moby Dick discute con Roberta Pantani, consigliera nazionale della Lega dei Ticinesi, Sergio Morisoli deputato in Gran Consiglio Ticinese per “La Destra” e Paolo Clemente Wicht ex presidente dell’UDC ticinese. Ospiti di “Moby Dick”, in interviste registrate, anche Gianfranco Fini ex presidente della Camera e artefice della trasformazione postfascista del Movimento Sociale Italiano e Roger Köppel direttore del settimanale “Die Weltwoche”.
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Da Libera TV riprendiamo il discorso del 1. agosto
Il Primo Agosto di Morisoli per la piazza di Liberatv: "Il mio discorso politically non correct a un Paese stanco. Il concetto di egualitarismo è l’origine dei guai di oggi"
"E’ inutile negare o far finta del contrario, l’occidente e l’Europa, quindi la Svizzera e il Ticino compresi, cioè la nostra civiltà occidentale, sono quello che sono e quello che tutti gli altri ci invidiano, sennò non si capirebbe perché vogliono venirci chi in massa e chi per farci affari, perché la nostra identità è stata per secoli, tre millenni, plasmata dalla fede e dalla ragione
Care concittadine e cari concittadini,
il primo d’agosto, per tradizione, dà l’occasione ai politici di esprimersi nelle piazze pubbliche di villaggi e città svizzere. Nell’era elettronica mi rivolgo con onore e piacere agli abitanti di LiberaTV dalla piazza virtuale che mi ospita, e ringrazio il sindaco Marco Bazzi e i suoi municipali per questa opportunità.
I temi da affrontare potrebbero essere numerosi, ma in definitiva faccio una scelta discutibile e politically non correct: propongo un ragionamento sul “chi siamo”. Molti altri più bravi di me parleranno oggi di cosa dobbiamo fare o non dobbiamo fare, colgo questa occasione invece per attirare l’attenzione su chi mette in moto il fare: la persona con tutto ciò che è e rappresenta. Senza la persona qualsiasi piano qualsiasi progetto, qualsiasi misura è carta straccia. Il cambiamento può avvenire solo se il cuore dell’uomo cambia, e affinché ciò avvenga in definitiva l’uomo è costretto a riscopre in continuazione “chi è”. Non solo anche, ma in questo momento soprattutto i politici dovrebbero mettersi su questo cammino. Sono convinto che il percorso per trovare la risposta identitaria del “chi siamo?” potrebbe essere già una buona parte della soluzione dei problemi che ci assillano. La politica, impegnata dal dopoguerra ad oggi nella ricerca del “cosa dobbiamo avere” ha smarrito il sentiero parallelo che porta a sviluppare lo sforzo in direzione del “chi vogliamo essere”. Le ragioni per le quali da tempo si sono evitate le famose questioni essere o non essere di Amleto, o l’avere o essere di Erich Fromm, sono tutte legittime e molteplici. Ciò non toglie che, se ci troviamo inguaiati nei problemi che sappiamo è anche dovuto a questa dimenticanza durata troppo a lungo.
Se non ci sforziamo di capire “chi siamo” difficilmente riusciremo a definire “chi vorremo essere” e soccomberemo a chi già oggi sa molto bene “chi è” e lotta deciso per “chi vuole rimanere”. Il grosso rischio, se evitiamo questo esercizio, è quello che, altri, non ci chiederanno chi “vorremo essere” ma ci imporranno “chi dobbiamo essere”. Sappiamo troppo bene, dalla concretezza degli orrori del secolo scorso, che la prima misura delle tirannie per sottomettere persone è popoli è quella di cancellargli l’identità.
Per la verità uno sforzo collettivo identitario a tutti i livelli, durato decenni, per convincerci che dovremo essere un giorno tutti uguali c’è stato, eccome. E proprio il concetto di egualitarismo è l’origine dei guai di oggi. Attenti, l’egualitarismo non è un concetto cavalcato solo dalle ideologie fallimentari di sinistra, loro volevano e vogliono il disumano “egualitarismo di arrivo”; ma pure l’utopico ed esclusivo “egualitarismo di partenza” voluto da destra non ha avuto maggior fortuna. Vediamo alcune macro dinamiche egualitariste lanciate diversi decenni orsono con le quali ci siamo occupati attivamente o reattivamente (quasi) tutti (marxisti e capitalisti, destra e sinistra, padroni e lavoratori, indigeni e stranieri, ecc…) e che oggi sappiamo averci portato in un vicolo cieco. Prima, un egualitarismo materiale di arrivo, da raggiungere ad ogni costo dividendo dall’alto le risorse in parti uguali grazie l’intervento dello Stato ridistributore (togliendo a qualcuno per dare ad altri); poi un egualitarismo di chances cercando di moltiplicare gli interventi compensatori dall’alto per annullare le differenze di partenza (dando solo a certi); quindi un egualitarismo promosso nel supermercato dei diritti infiniti senza doveri e delle totali libertà senza responsabilità per tutti; poi ancora un egualitarismo spirituale eliminando le credenze religiose dallo spazio pubblico e relegandole al privatismo se non estirpandole; poi un egualitarismo mercantilista foriero di un consumismo privato e pubblico in cui altri decidono di cosa abbiamo bisogno e gli stessi decidono pure come soddisfarci questi bisogni; da ultimo entra in scena l’egualitarismo del diritto e delle leggi sottraendo sovranità e autodeterminazione nazionale con l’imposizione dell’omologazione giuridica continentale anonima, asettica e gelida. Questo pluridecennale lavoro sul cantiere politico dell’egualitarismo, seppur in campi e forme diverse e perfino in buona fede, ha tolto di mezzo l’abitudine e la fatica politica del dover trasformare, amalgamare in opportunità la ricchezza delle diversità quale forma primaria di alimentazione della nostra identità. Nella storia dell’umanità difficilmente è mai esistito un periodo come il nostro in cui si innalzassero inni continui alle differenze e alle diversità per poi paradossalmente e concretamente cercare di omologarle massificarle rendendole norma banale anziché eccezioni valide. Mai prima d’ora si è tanto sacralizzato il sentimento collettivo ma paradossalmente nel contempo mai si è reso l’uomo tanto solo e atomizzato mettendolo in una posizione di paura e smarrimento. Non sono giudizi morali, sono fatti, come sono fatti il benessere e la prosperità di cui beneficiamo e di cui sono grato e che compensano ampiamente queste disfunzioni, il problema però è fino a quando?
Cosa c’entra tutto questo con il 1. d’agosto? Oggi c’entra eccome, e tanto più se si tien conto dei fatti di cronaca, l’identità è un tema che nessun politico lascerà da parte, è il tema. Ma l’identità generica o nazionalistica senza riflettere e ri-capire chi siamo, da sola non basta. Un’identità di popolo è data e si perpetua se ogni persona che lo forma sa chi è; se ci si sforza di conoscerla, consolidarla e di tramandarla di generazione in generazione. E’ vero anche l’inverso, cioè che una persona si identifica in un popolo se questo sa chi è. L’identità, come la libertà non è data una volta per tutte; ma vanno conquistate difese e promosse nel piccolo come nel grande, quotidianamente. Allora proviamo a procedere per scalini. Una identità si forma tramite radici, tradizioni, usi costumi abitudini e valori condivisi; non c’entra nulla con la razza quella non ce la possiamo dare da noi stessi, non ce la scegliamo; mentre un’identità ce la possiamo costruire, scegliere e perfino rifiutare e rinnegare. Ecco, negli ultimi decenni, in Europa, in Svizzera e anche in Ticino abbiamo impiegato più tempo e risorse per cercare di rinnegare, confondere e truccare la nostra identità, fino a mutarla affinché piacesse ad altri, piuttosto che a pulirla, lustrala, valorizzarla e migliorarla, lanciati come eravamo tutti nell’ideologia utopica dell’egualitarismo integrale. Egualitarismo, inteso come annullamento di qualsiasi differenza, come condizione, mezzo e fine per garantire pace e benessere. Come reazione a ciò, nascono poi le deliranti e criminali fughe in avanti protezionistiche e xenofobe che trovano terreno fertile quando le identità vere scompaiono, mentre questi movimenti trovano lo spazio e il vantaggio per imporre le loro identità malate. Ma quando scompaiono, si annientano, si disimparano, si dismettano, si trascurano, si svalutano le vere identità dei singoli e con esse di un popolo, si apre a poco a poco lo spazio per l’inserimento, a volte violento, di identità esotiche totalitarie e proiettate verso l’egemonia. Certamente la nostra identità è anche minacciata dal terrorismo islamico o dalla non integrazione delle folle di disperati in cerca di una vita migliore, ma sarebbe un errore colossale concludere che queste siano le uniche cause. La prima modifica genetica della nostra identità unica e originale invece ce la stiamo procurando noi stessi da anni, convinti ormai che il progresso sia possibile se e solo se diventiamo altro da ciò che si era e si è. Quindi i decenni passati ossessivamente a negare le nostre radici, a relativizzare i nostri valori, ad auto colpevolizzarci per le sfortune altrui, a imitare o integrare con risultati fallimentari modelli non nostri, a sviluppare un senso di frustrazione e impotenza stanno producendo ciò che di peggio non ci potrebbe essere per una sana identità di popolo: stanno producendo il cinismo degli adulti, la distruzione della speranza nei giovani e la paura generale. Il risultato è che molti si comportano come se fossero l’ultima generazione, anziché provare a pensare cosa farebbero di diverso se fossero la penultima. Trovando una identità in fase di smantellamento, chi ha altre identità pacifiche ma più spesso forti e bellicose, ha gioco facile ad accelerare il nostro processo autodistruttivo. Le teorie economico politiche di Rawls, nate sul relativismo olistico, che per molto tempo (troppo) ci hanno spinto a spogliarci di qualsiasi tratto identitario che potesse ostacolare la collaborazione con l’altro, e viceversa; ci hanno alla lunga resi nudi e smarriti ma senza contropartita. Perfino Habermas giunge ad abbandonare le posizioni scettiche e relativiste quanto l’identità, quando si tornasse a valorizzare quanto di buono c’è nella nostra storia in tutto e in tutti e ricuperarlo per ridefinire un bene comune. Papa Ratzinger poi nei suoi interventi all’università di Ratisbona, al collège des Bernardins di Parigi, al Budestag di Berlino, alla Westminster Hall di Londra e alle Nazioni unite di new York a più riprese e in modo incontestabile ci ha detto senza eguali quale è l’identità dell’occidente e la sua vera forza. Ma il processo di smantellamento identitario non è astratto o solo filosofico, è pratico e concreto a qualsiasi livello lo si voglia osservare. Sono centinaia gli esempi fattibili e riconducibili alla regressione identitaria. Tutti esempi riconducibili a decisioni o valutazioni politiche sbagliate a riguardo dei processi di causa effetto che incidono sull’identità di un popolo. Alcuni esempi. Se la svizzera è costretta ad adottare il diritto europeo e le sue sentenze c’è una debolezza identitaria interna e quindi una incapacità poi di farsi valere in politica estera, prima che un attacco esterno. Se l’islam avanza in Europa e particolarmente in certi Paesi c’è una ragione identitaria interna e quindi un terreno fertile incustodito, prima che un attacco esterno. Se il Ticino subisce solo le conseguenze negative degli accordi internazionali c’è una debolezza identitaria interna e una progettualità negoziale insufficiente, prima che la malafede degli altri. Pochi esempi per dire che i nuovi barbari, i nemici politici , i concorrenti economici senza scrupoli sono ovunque e dobbiamo temerli, ma non dimentichiamo che la nostra debolezza identitaria facilita loro il compito. Le sfide da affrontare, con le dovute proporzioni in Europa, in Svizzera e in Ticino sono: iinvecchiamento della popolazione, denatalità e sgretolamento della famiglia, manipolazione della vita umana, importazione di persone e esportazione di lavoro, meticciato culturale e migrazioni di massa, assicurazioni sociali in perdita focalizzate su formule di mercati finanziari inefficienti, crisi del finanziamento dello stato sociale e rischio d’inflazione, concorrenza «sleale» tra stati e barriere d’entrata sui nuovi mercati, neo-protezionismo e default Paesi sviluppati, iper-regolamentazione nei mercati saturi, ostacoli e disincentivi alla proprietà privata e all’imprenditoria, dissociazione: elettore-contribuente-beneficiario, burocratizzazione della vita, riforma delle democrazie e la modernizzare lo Stato.
Non sono sfide perse in partenza, o una battaglia in cui bisogna alzare bandiera bianca prima di iniziarla. C’è speranza. La speranza è ciò che ha da sempre fatto grande l’occidente, ma attenzione: non commettiamo l’errore di credere che il terrorismo islamico, la barbara concorrenza economica e la selvaggia migrazione sud nord siano sconfitte semplicemente rinunciando ad essere ciò che siamo e cercando il sistema che mescolando un po’ del loro con un po’ del nostro tutto rimanga com’è. Sperando vanamente che abbiano poi, chissà per quale ragione, pietà di noi. Accentuo la questione identitaria quale fattore di speranza e di ripartenza perché la storia dell’occidente è disseminata di esempi di rinascita, quando tutto sembrava definitivamente perso, attraverso una riappropriazione delle essenzialità identitarie di popolo. Un esempio su tutti: ora et labora, che altro non fu che la ricostruzione dell’Europa da parte degli ordini monastici benedettini dopo le barbarie seguenti la caduta dell’impero romano d’occidente. La speranza opera ed è potente se mossa da uomini vivi, cioè se sanno chi sono e cosa vogliono. In ultima analisi se sapremo farci rispettare consapevoli della ragione per la quale ilnostro amore per la vita libera è più forte dell’amore per la morte, per la distruzione e per la sottomissione di coloro ci vorrebbero sconfiggere.
Alcuni punti saldi devono essere ripresi e corretti per riscoprire, progettare e costruire di nuovo la nostra identità orgogliosamente occidentale. Lo si può fare unicamente con una grande dose di umiltà e onestà intellettuale, e isolando i pregiudizi che per decenni ci sono stati inculcati in funzione del progetto sociale di ingegneria egualitaria. Proviamoci.
E’ inutile negare o far finta del contrario, l’occidente e l’Europa, quindi la Svizzera e il Ticino compresi, cioè la nostra civiltà occidentale, sono quello che sono e quello che tutti gli altri ci invidiano, sennò non si capirebbe perché vogliono venirci chi in massa e chi per farci affari, perché la nostra identità è stata per secoli, tre millenni, plasmata dalla fede e dalla ragione.
Non è mai stato un rapporto facile tra le due, ma per secoli senza esclusione di colpi e di guerre, non sono mai state neglette. Per secoli era una corsa una contro l’altra, e a ben vedere a beneficio poi di tutti. La crepa identitaria è iniziata dapprima con la loro separazione netta, e poi con i reciproci tentativi di dominio o di annientamento di una sull’altra, e viceversa. I tempi moderni hanno poi visto l’imporsi di un illuminismo ateo, in cui l’uomo è diventato strumento, fine e misura di tutte le cose. In questo procedere si è dapprima marginalizzata la fede, poi la si è liquidata come un elemento di disturbo o di superstizione, scoprendo poi ai giorni nostri che avendo fatto fuori la fede si è iniziato a far fuori anche la ragione. Significa che l’occidente e l’Europa in particolare ha chiuso prima uno e poi sta chiudendo l’altro rubinetto che alimentavano la nostra vera e imponente identità. Con il definitivo affermarsi del “Dio è morto” (Nietszche) o della più tollerante mentalità comune del “se Dio c’è non c’entra”; ci siamo tagliati una radice fondamentale che portava linfa vitale al nostro sistema identitario. Messa in disuso la fede, la conseguenza è ormai visibile a tutti: va in crisi anche la ragione, non avendo più un avversario all’altezza per concorrenziarla. Se la fede ci obbligava a ragionare costantemente, forse anche esageratamente, attorno a concetti religiosi pratici quali “bene e male”; per simmetria la ragione orfana della concorrenza di fede va in crisi; significa l’incapacità per lei di ragionare attorno a concetti laici fondamentali quali “giusto e sbagliato”. Se la ragione rinuncia a ritenere e a dimostrare continuamente che ci sono dei “giusti” e degli “sbagliati” assoluti, accontentandosi di un relativismo accondiscendente e di un opinionismo a maggioranza, presto al nostro sistema identitario mancherà definitivamente la linfa vitale e impazzirà. Un esempio banale basta per rendere l’idea di ragione impazzita che rinuncia alla ricerca del “giusto” arrendendosi al relativismo. Sappiamo tutti che 3 + 2 fanno 5; se ora una forte maggioranza dice che fa 8 e una minoranza dice che fa 6, per appacificare tutti potrebbe darsi che qualcuno sancirà che 3 + 2 fanno ormai 7. Il premio nobel per la letteratura Gilbert K. Chesterton in “Eretici” a proposito della ragione in spegnimento e soccombente all’opinionismo, scrisse che : “un giorno sguaineremo le spade per dimostrare che le foglie sono verdi in estate”. Questo è ciò che accade, nemmeno tanto lentamente, quando la ragione diventa debole e rinunciataria. Simmetricamente, nel campo della fede già vale ciò che Dostoevskij si chiedeva ne “I fratelli Karamazov” : “se Dionon esiste, tutto è permesso” e (..) “se tutto è permesso dunque, tutto è lecito?”
Le nostre radici sono l’incontro di tre pensieri precristiani di Gerusalemme, Atene e Roma; dall’incontro tra fede nel Dio d’Israele, la ragione filosofica dei Greci e il pensiero giuridico di Roma. Il cristianesimo con la parte buona dell’illuminismo hanno permesso di amalgamare e miscelare in modo eccellente questi ingredienti tanto da creare una civiltà, la nostra, ricca materialmente e umanamente senza pari, senza precedenti, invidiabile e inimitabile. Il nostro DNA è questo e la nostra secolare identità ne è la prova, seppur ferita e martoriata. Una identità che per noi svizzeri nasce molto presto nel 1291 con il Patto del Grütli: “nel nome del Signore così sia. È opera onorevole ed utile confermare, nelle debite forme, i patti della sicurezza e della pace. Sia noto dunque a tutti, che gli uomini della valle di Uri, la comunità della valle di Svitto e quella degli uomini in Untervaldo, considerando la malizia dei tempi ed allo scopo di meglio difendere e integralmente conservare sé ed i loro beni, hanno fatto leale promessa di prestarsi reciproco aiuto, consiglio e appoggio, a salvaguardia così delle persone come delle cose, dentro le loro valli e fuori, con tutti i mezzi in loro potere, con tutte le loro forze, contro tutti coloro e contro ciascuno di coloro che ad essi o ad uno d'essi facesse violenza, molestia od ingiuria con il proposito di nuocere alle persone od alle cose. Ciascuna delle comunità promette di accorrere in aiuto dell'altra, ogni volta che sia necessario, e di respingere, a proprie spese, secondo le circostanze, le aggressioni ostili e di vendicare le ingiurie sofferte (...)”. Per altri, la consapevolezza identitaria ha permesso di scrivere nero su bianco nella dichiarazione di indipendenza americana del 1776, la miglior sintesi di ciò che siamo e vogliamo essere: “Noi riteniamo che le seguenti verità siano di per sé stesse evidenti; che tutti gli uomini sono stati creati uguali, che essi sono stati dotati dal loro Creatore di alcuni diritti inalienabili, che fra questi sono la Vita, la Libertà e la ricerca della felicità”. Una identità che alcuni anni dopo, 1789, si affina in Francia dando nascita alla Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, per poi esplicitarsi definitivamente ai giorni nostri nel 1948, con la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo.
Se non ricuperiamo l’unione di fede e ragione (da non confondere con la geniale e necessaria separazione tra Stato e Chiesa) come motori di ricerca e propulsori di questa identità, siamo destinati a scomparire. Non ci sarà un mondo senza identità, ma un mondo in cui le identità più forti stanno sottomettendo gli altri. Il premio nobel per l’economia Friedrich von Hayek nel discorso alla Mont Pélerin society nel 1947 disse : «Sono convinto che, se la frattura fra il vero liberalismo e le convinzioni religiose non sarà sanata, non ci sarà alcuna speranza per la rinascita delle forze liberali». Un altro grande del pensiero liberale laico, Benedetto Croce, per ricordarci chi eravamo coniò la famosa espressione: “non possiamo non dirci cristiani”; oggi dovrebbe con rammarico probabilmente attualizzarla con un’aggiunta: “non possiamo non dirci cristiani e cartesiani !”. Nel 1998 Papa Wojtyla aveva già posto il tema al centro di una sua Enciclica dandole addirittura il titolo “Fides et Ratio”. Soffriamo tutti, uguale se in Europa, in Svizzera, in Ticino dello stesso male e siamo addolorati per la nostra impotenza e lo smarrimento generale, nessun confine di stato può trattenere questi sentimenti; la globalizzazione ha globalizzato anche questo. Resisteremo e sconfiggeremo le nuove barbarie, affronteremo con successo le nuove grandi sfide; se riusciremo ad armare la nostra identità con lo scudo della fede in una mano e la lancia della ragione nell’altra. Soltanto lavorando alacremente per modellare un neo illuminismo che leghi fede e ragione, potremo vincere le tenebre incombenti del vivere da “homo homini lupus” già intuito nel 1651 da Thomas Hobbes e evitare il Leviatano.
Il Natale della Patria imporrebbe di parlare primariamente solo di noi, eventualmente di noi e gli altri. Gli accadimenti e le emergenze in atto ci impongono però una riflessione più larga dei nostri confini e più profonda per le nostre coscienze, nemmeno noi svizzeri non possiamo più bastare solo a noi stessi; e la nostra identità non basterà se anche gli altri non riscopriranno con noi, le radici identitarie della nostra civiltà. Mai come oggi le parole del nostro santo patrono nazionale, san Nicolao della Flüe potrebbero essere tanto attuali: impedire la guerra ad ogni costo, negoziare fino allo stremo per evitarla, e mai allargare troppo i patrii confini. Ma questo è attuabile solo se si sa chi si è e cosa si vuole.
La grandezza della Svizzera è quella di essere riuscita a far convivere da molti secoli le evidenti diversità razziali e culturali, ma anche di aver integrato elementi arcaici e naturali quali popolo, identità e patria con elementi giuridici e artificiali quali cittadini, leggi e stato.
Per concludere, si può lasciare tutto al caso o alla provvidenza senza intraprendere nulla. Oppure se la politica ha ancora uno scopo e un senso non può sottrarsi al compito di ricuperare e rilanciare la nostra identità quale forse unico elemento dal quale discendono poi tutte le altre scelte politiche. Se non sappiamo (più) chi siamo come possiamo sapere cosa vogliamo o non vogliamo?
In scala ticinese, mi permetto di indicare delle misure politiche prioritarie e concrete che ci lancino su questa via. Ne vedo due: una di cortissimo termine, la protezione dei cittadini e una di medio termine, l’educazione. Protezione: significa creare una politica estera proattiva e robusta, rafforzare la sicurezza interna, creare maggiori opportunità di lavoro per i residenti in Ticino. Educazione: non posso che indicare la “Scuola che verrà”. Un dossier decisivo che non può rimanere senza correzioni importanti. Dalla strada educativa che sceglieremo, e da quali pietre miliari poseremo per le prossime generazioni, dipenderà la nostra identità quindi il nostro benessere, la nostra prosperità, la nostra libertà. Ma non solo educazione scolastica, occorre in forme nuove e creative promuovere e moltiplicare le iniziative e le occasioni di confronto tra adulti volte a farci scoprire “chi siamo” e a farci desiderare “chi vogliamo essere”.
Con le parole di S. Francesco d’Assisi direi: “Cominciate col fare ciò che è necessario, poi ciò che è possibile. E all’improvviso vi sorprenderete a fare l’impossibile.”
Auguro di cuore a tutte e a tutti un eccellente 1. d’agosto ! Viva la Svizzera.
*Presidente e deputato di AreaLiberale
Pubblicato il 31.07.2016 19:10<