Signor Ministro di Stato,
Signore Ministre,
Signore e Signori Parlamentari,
Signor Nunzio,
Signore e Signori ambasciatori,
Signore e Signori rappresentanti dei culti,
Monsignore,
Signore e Signori,
La ringrazio vivamente, Monsignore, e ringrazio la
Conferenza dei Vescovi di Francia per l’invito ad esprimermi qui stasera, in
questo luogo tanto particolare e bello che è il Collège des Bernardins, del
quale voglio pure ringraziare i responsabili e i collaboratori.
Per ritrovarci qui stasera, Monsignore, abbiamo senza dubbio
sfidato gli scettici di entrambi i versanti. E se l’abbiamo fatto, è senza
dubbio perché condividiamo confusamente il sentimento che il legame tra la
Chiesa e lo Stato si è deteriorato, e che a lei come a me interessa ripararlo.
Per questo, non c’è altro mezzo oltre a quello di un dialogo
in verità.
Tale dialogo è indispensabile, e se io dovessi riassumere il
mio punto di vista, direi così: una Chiesa che pretendesse di disinteressarsi
delle questioni temporali non assolverebbe fino in fondo alla propria
vocazione; e un presidente della République che pretendesse di disinteressarsi
della Chiesa e dei cattolici verrebbe meno al proprio dovere.
L’esempio del colonnello Beltrame mediante il quale,
Monsignore, lei ha appena concluso il suo intervento, illustra tale punto di
vista in una maniera che mi pare luminosa.
Molti, da quel tragico 23 marzo, hanno cercato di dare un
nome alla sorgente segreta del suo gesto eroico.
Alcuni vi hanno visto l’accettazione del sacrificio ancorata
nella sua vocazione militare. Altri vi hanno visto la manifestazione di una
fedeltà repubblicana nutrita dal suo percorso massonico. Altri, infine, e in
particolare la sua sposa, hanno interpretato il suo atto come la traduzione
della sua fede cattolica ardente, pronta alla prova suprema della morte.
Queste dimensioni, in realtà, sono talmente intrecciate che
è impossibile sbrogliarle, anzi è anche inutile, perché questa condotta eroica
è la verità di un uomo in tutta la sua complessità che si è consegnata e
manifestata.
Ma in questo Paese di Francia, che mal gestisce la propria
diffidenza riguardo alle religioni, non ho inteso una sola voce levarsi per
contestare questa evidenza, incisa nel cuore del nostro immaginario collettivo,
e cioè: quando viene l’ora della più grande intensità, quando la prova comanda
di raccogliere tutte le risorse che si hanno in sé al servizio della Francia,
la parte del cittadino e la parte del cattolico bruciano, nel vero credente, di
una medesima fiamma.
Io sono convinto che i legami più indistruttibili tra la
nazione francese e il cattolicesimo si siano forgiati in questi momenti ove s’è
verificato il valore reale degli uomini e delle donne. Non c’è bisogno di
risalire ai costruttori di cattedrali e a Giovanna d’Arco: la storia recente ci
offre mille esempî – dalla Sacra Unione del 1914 fino alla Resistenza degli
anni ’40, dai Giusti ai rifondatori della République, dai Padri dell’Europa
agli inventori del sindacalismo moderno, dalla gravità eminentemente degna che
seguì l’assassinio di padre Hamel alla morte del colonnello Beltrame. Sì, la
Francia è stata fortificata dall’impegno dei cattolici.
Dicendo questo, non sono confuso e non mi contraddico. Se i
cattolici hanno voluto servire e rendere grande la Francia, se hanno accettato
di morire, ciò non è stato solo in nome di ideali umanistici. Ciò non è stato
solamente in nome di una morale giudeo-cristiana secolarizzata. Ciò è stato
perché erano portati dalla loro fede in Dio e dalla loro pratica religiosa.
Alcuni potranno considerare che tali affermazioni vadano ad
incrinare la laicità. Ma dopotutto, anche noi contiamo martiri ed eroi di ogni
confessione e la nostra storia recente ce l’ha mostrato ancora – vi sono stati
anche degli atei che hanno trovato nel fondo della loro morale le risorse per
un sacrificio completo. Riconoscere gli uni non significa sminuire gli altri, e
io penso che la laicità non abbia certo per fine la negazione dello spirituale
in nome del temporale, né sradicare dalle nostre società la parte sacra che
nutre tanti nostri concittadini.
Come capo dello Stato, io sono garante della libertà di
credere e di non credere, ma non sono né l’inventore né il promotore di una
religione di Stato che sostituisca alla trascendenza divina un credo
repubblicano. Chiudere volontariamente gli occhi sulla dimensione spirituale
che i cattolici investono nella loro vita morale, intellettuale, famigliare,
professionale, sociale, significherebbe condannarmi a non avere se non una
vista parziale della Francia; sarebbe misconoscere il Paese, la sua storia, i
suoi cittadini; e affettando indifferenza io derogherei alla mia missione.
E questa stessa indifferenza io non ce l’ho neppure per
tutte le confessioni che oggi popolano il nostro Paese.
* * *
Proprio perché non sono indifferente, percepisco quanto il
cammino che lo Stato e la Chiesa condividono da così tanto tempo sia oggi
disseminato di malintesi e di reciproche diffidenze.
Non è certo la prima volta, nella nostra storia. È della
natura della Chiesa l’interrogare costantemente il proprio rapporto con il
politico*, con quell’esitazione perfettamente descritta da Marrou nella sua
Teologia della storia, e la storia di Francia ha visto succedersi momenti in
cui la Chiesa si installava nel cuore della città e momenti in cui si accampava
extra mœnia.
Ma oggi, in questo momento di grande fragilità sociale,
quando lo stesso tessuto della nazione minaccia di sbrindellarsi, io considero
mia responsabilità non lasciar erodere la fiducia dei cattolici riguardo alla
politica – e ai politici. Io non posso rassegnarmi a questo spopolamento. E non
potrei lasciare che questa rovina si aggravi.
È tanto più vero che la situazione attuale è meno il frutto
di una decisione della Chiesa che il risultato di molti anni durante i quali i
politici hanno profondamente misconosciuto i cattolici di Francia.
Così da un lato una parte della classe politica ha senza
dubbio cavalcato il legame coi cattolici, per delle ragioni sovente fin troppo
evidentemente elettoraliste.
Così facendo, abbiamo ridotto i cattolici a quello strano
animale che si chiama “l’elettorato cattolico”, e che in realtà è un ente
sociologico. E ne abbiamo così fatto il letto di una visione comunitarista che
contraddice la diversità e la vitalità della Chiesa in Francia, ma pure
l’aspirazione del cattolicesimo all’universale – come indica il suo nome – a
profitto di una riduzione categoriale abbastanza mediocre.
Dall’altro lato, abbiamo trovato tutte le ragioni per non
ascoltare i cattolici, relegandoli per diffidenza acquisita e per calcolo al
rango di minoranza militante in senso contrario all’unanimità repubblicana.
Per ragioni che sono insieme biografiche, personali e
intellettuali, io ho un’idea più alta, dei cattolici. E non mi sembra né sano
né buono che il politico1 si sia ingegnato con tanta determinazione sia a
strumentalizzarli sia a ignorarli, mentre è di un dialogo e di una cooperazione
di tutt’altro calibro, di un contributo di tutt’altro peso alla comprensione
del nostro tempo e all’azione, ciò di cui abbiamo bisogno per far sì che le
cose evolvano nella direzione giusta.
Questo è quanto la sua bella allocuzione ha mostrato,
Monsignore. Le preoccupazioni che ha appena sollevato – e proverò a rispondere
o a gettare un lume provvisorio su alcune di esse – tali preoccupazioni non
sono i fantasmi di alcuni. Le questioni che sono le vostre non si limitano agli
interessi di una comunità ristretta. Sono questioni per tutti noi, per tutta la
nazione, per la nostra umanità tutta intera.
Questo interrogarsi interessa tutta la Francia non perché è
specificamente cattolico, ma perché esso riposa su un’idea dell’uomo, del suo
destino, della sua vocazione, che sta al cuore del nostro divenire prossimo.
Perché esso intende offrire un senso e dei punti di riferimento a ciò che
troppo spesso ne manca.
Ed è perché intendo rendere giustizia a questi interrogativi
che sono qui stasera. E per domandarvi solennemente di non sentirvi ai margini
della République, ma di ritrovare il gusto e il sapido senso del ruolo che
avete sempre ricoperto.
So che s’è dibattuto delle radici cristiane d’Europa come
del sesso degli angeli. E che questa definizione è stata scartata dai
parlamentari europei. Ma dopotutto, l’evidenza storica passa talvolta dai
simboli. E soprattutto, non sono le radici a importarci, perché esse possono
pure essere morte. Ciò che importa è la linfa. E io sono convinto che la linfa
cattolica debba contribuire ancora e sempre a far vivere la nostra nazione.
È per tentare di capire questo che sono qui stasera. Per
dirvi che la République si aspetta molto da voi. Essa si aspetta nella
fattispecie, se me lo permettete, che voi le facciate tre doni:
il dono della vostra sapienza;
il dono del vostro impegno;
e il dono della vostra libertà.
* * *
L’urgenza della nostra politica contemporanea è di ritrovare
il suo radicamento nella questione dell’uomo o – per dirla con Mounier – della
persona.
Noi non possiamo più, in questo mondo che va come va, essere
soddisfatti di un progresso economico o scientifico che non si interroghi sul
suo impatto sull’umanità e sul mondo. È quanto sono andato a dire alla tribuna
delle Nazioni Unite a New York, ma anche a Davos o ancora al Collège de France
qualche giorno fa, quando ho parlato di intelligenza artificiale: abbiamo
bisogno di dare un fine alla nostra azione, e questo fine è l’uomo.
Ora, non è possibile avanzare su questa strada senza
incrociare il cammino del cattolicesimo, che da secoli pazientemente cesella
tale interrogarsi. E lo cesella nel suo proprio interrogarsi, in un dialogo con
le altre religioni. Un interrogarsi che gli dà la forma di un’architettura, di
una pittura, di una filosofia, di una letteratura, che tentino – tutte, in
mille maniere – di esprimere la natura umana e il senso della vita. «Venerabile
perché ha ben conosciuto l’uomo», dice Pascal riguardo alla religione
cristiana. E certo, altre religioni, altre filosofie hanno incrociato il
mistero dell’uomo. Ma la secolarizzazione non potrebbe eliminare la lunga
tradizione cristiana.
Al cuore di questa domanda sul senso della vita, sul posto
che riserviamo alla persona, sul modo in cui noi le conferiamo la sua dignità,
lei ha collocato due argomenti del nostro tempo, Monsignore: la bioetica e i
migranti.
Lei ha così stabilito un legame intimo tra due argomenti che
la politica e la morale ordinarie avrebbero volentieri trattato a parte. Lei
considera che sia nostro dovere il proteggere la vita, in particolare quando
questa vita sia indifesa. Tra la vita del bambino che deve nascere, quella
dell’essere giunto sulle soglie della morte o quella del rifugiato che ha
perduto tutto, lei vede questo tratto comune della spoliazione, della nudità e
dell’assoluta vulnerabilità. Questi esseri sono esposti. Essi attendono tutto
dall’altro, dalla mano che si tende, dalla benevolenza che si prenderà cura di
loro. Questi due argomenti mobilitano la nostra parte più umana e la concezione
stessa che abbiamo dell’umano. E tale coerenza s’impone a tutti.
Allora ho sentito, Monsignore, Signore e Signori, le
inquietudini che salgono dal mondo cattolico. E voglio qui tentare di
rispondere, o in ogni caso di apportare la nostra parte di verità e di
convinzione.
Sui migranti, ci si rimprovera talvolta di non accogliere
con sufficiente generosità e dolcezza. Di lasciare che nei centri di detenzione
prendano piede casi preoccupanti o di respingere i minori isolati. Ci si accusa
anche di lasciar prosperare violenze poliziesche.
Però a dire il vero… che cosa stiamo facendo? Tentiamo con
urgenza di mettere un termine a situazioni che abbiamo talvolta ereditato e che
si sviluppano a causa dell’assenza di regole, o della loro cattiva
applicazione, o della loro cattiva qualità – e penso qui ai ritardi nei
trattamenti amministrativi, ma anche alle condizioni di rilascio del titolo di
rifugiati.
Il nostro lavoro, quello che ogni giorno espleta il ministro
di Stato, è di uscire dall’incertezza giuridica delle persone che vi si perdono
e che sperano invano, che tentano di ricostruire qualcosa qui, dopo essere
stati espulsi, mentre altri che potrebbero vivere la loro vita da noi soffrono
condizioni d’accoglienza degradate in centri straripanti.
È la conciliazione del diritto e dell’umanità che tentiamo.
Papa Francesco ha dato un nome a codesto equilibrio, lo ha chiamato “prudenza”,
facendo di tale virtù aristotelica quella del governatore, confrontata
naturalmente alla necessità umana di accogliere ma pure a quelle politica e
giuridica di ospitare e di integrare. È il punto di ricaduta di quest’umanesimo
realista che ho fissato.
Ci saranno sempre situazioni difficili, ci saranno talvolta
situazioni inaccettabili e bisognerà, ogni volta, insieme, fare di tutto per
risolverle. Ma non dimentico neppure che portiamo pure la responsabilità di
territori sovente difficili in cui i rifugiati arrivano. Sappiamo che i flussi
di nuove popolazioni gettano la popolazione locale nell’incertezza, la spinge
verso opzioni politiche estreme, scatena sovente un ripiego che ha qualcosa del
riflesso di protezione. Vede la luce una forma di angoscia quotidiana che
alimenta una guerra tra poveri.
La nostra esigenza sta appunto in una tensione etica
permanente fra questi principî. Quello di un umanesimo che è il nostro e di non
risparmiare alcunché – in particolare per proteggere i rifugiati. È nostro
dovere morale ed è scritto nella nostra Costituzione. Impegnarci chiaramente
perché l’ordine repubblicano sia mantenuto e perché questa protezione dei più
deboli non significhi però l’anomia e l’assenza di discernimento, perché ci
sono anche delle leggi che occorrerà far valere. E perché si trovino dei posti
– come si diceva poco fa riguardo ai centri d’accoglienza o nelle situazioni
più difficili – bisogna accettare che, facendoci carico della nostra parte di
miseria, non possiamo accollarcela tutta intera e senza distinzione fra
situazioni. E dobbiamo anche mantenere la coesione nazionale del nostro Paese,
nel quale talvolta alcuni non parlano più di questa generosità che stasera
evochiamo, ma non vogliono vedere che il lato spaventoso dell’altro. E nutrono
questo gesto per far progredire il loro progetto.
È proprio perché dobbiamo mantenere questi principî talvolta
contraddittori in una tensione costante che ho voluto che portassimo questo
umanesimo realista e che lo assumo pienamente davanti a voi.
Lì dove abbiamo bisogno della vostra sapienza, è anzitutto
per tenere questo discorso di umanesimo realista. È per condurre all’impegno di
quelle e di quelli che potranno aiutarci, ed è per evitare i discorsi
disfattisti, l’avanzata delle paure che continueranno a nutrirsi di questa
parte di noi, perché i flussi massivi di cui lei ha parlato e di cui ora io
parlo non si estingueranno dall’oggi al domani. Essi sono il frutto di grandi
squilibri nel mondo, e che si tratti di conflitti politici, che si tratti di
miseria economica e sociale o di sfide climatiche, essi continueranno ad
alimentare negli anni e nei decenni a venire grandi migrazioni con le quali noi
saremo messi a confronto. E bisognerà che continuiamo a tenere saldamente il
punto. Che tentiamo costantemente di tenere i nostri principî nel reale. E in
questa materia io non cederò alle scorciatoie né degli uni né degli altri.
Sarebbe venir meno alla mia missione.
* * *
Sulla bioetica siamo talvolta sospettati di avere un’agenda
segreta. Di conoscere in anticipo i risultati di un dibattito che aprirà nuove
possibilità nella procreazione assistita, aprendo la porta a pratiche che
irresistibilmente s’imporranno a seguire, come la Gestazione Per Altri. E
alcuni si dicono che l’introduzione in questi dibattiti di rappresentanti della
Chiesa cattolica, come dell’insieme dei rappresentanti dei culti, come fin
dall’inizio del mio mandato mi sono impegnato a fare, è uno specchietto per le
allodole, destinato a diluire la parola della Chiesa o a prenderla in ostaggio.
Voi lo sapete, ho deciso che il parere del Consiglio
consultivo nazionale di Etica (CCNE), Signor Presidente, non fosse sufficiente
e che bisognasse arricchirlo col parere di responsabili religiosi. E ho
auspicato pure che tale lavoro sulle leggi bioetiche, che il nostro diritto
c’impone di rivedere, possa essere corroborato da un dibattito organizzato dal
CCNE ma in cui tutte le famiglie – filosofica, religiosa, politica – e la
nostra società avessero a esprimersi in maniera piena e intera. Ciò perché sono
convinto che non siamo di fronte a un problema semplice che possa essere
squadrato da una sola legge. Siamo bensì di fronte a dibattiti morali ed etici
profondi, che toccano il più intimo di ciascuno fra noi.
Ascolto la Chiesa quando si mostra rigorosa sulle fondazioni
umane di ogni evoluzione etica. Ascolto la vostra voce quando essa c’invita a
non ridurre all’agire tecnico di cui lei ha perfettamente mostrato i limiti.
Ascolto il posto essenziale che nella società voi date alla famiglia… alle
famiglie, oserei dire. Ascolto anche questa cura di saper coniugare la
filiazione con i progetti che i genitori possono avere per i loro bambini.
Siamo quindi confrontati a una società in cui le forme della
famiglia evolvono radicalmente, in cui lo statuto del bambino si trova talvolta
ingarbugliato. E i nostri concittadini sognano di fondare cellule famigliari.
Ora, oggigiorno i nostri concittadini sognano di fondare cellule famigliari di
modello tradizionale a partire da schemi famigliari che lo sono di meno.
Ascolto le rivendicazioni che formulano le istanze cattoliche, le associazioni
cattoliche, ma anche lì, alcuni principî enunciati dalla Chiesa vengono a
confrontarsi con realtà contraddittorie e complesse, che attraversano gli
stessi cattolici.
Tutti i giorni, tutti i giorni, le medesime associazioni
cattoliche e i preti accompagnano famiglie monoparentali, famiglie divorziate,
famiglie omosessuali, famiglie che ricorrono all’aborto, alla fecondazione in
vitro, alla PMA, famiglie che si confrontano con lo stato vegetativo di un loro
membro, famiglie in cui uno crede e l’altro no, infliggendo nella famiglia lo
strappo di scelte spirituali e morali. E questo – lo so – è pure il vostro
quotidiano.
La Chiesa accompagna infaticabilmente queste situazioni
delicate e tenta di conciliare i propri principî e il reale. Ecco perché non
sto dicendo che l’esperienza del reale disfaccia o invalidi le posizioni
adottate dalla Chiesa.
Dico semplicemente che anche lì bisogna trovare il limite.
Perché la società è aperta a tutti i possibili, ma la manipolazione e la
fabbricazione del vivente non possono estendersi all’infinito senza rimettere
in causa l’idea stessa dell’uomo e della vita. Così, il politico* e la Chiesa
condividono questa missione di mettere le mani nella melma del reale, di
confrontarsi tutti i giorni perché il temporale – oso dirlo – sia sempre più
temporale.
E ciò risulta sovente duro, complicato, esigente e
imperfetto. E le soluzioni non vengono da sé. Esse nascono dall’articolazione
tra il reale e un pensiero, un sistema di valore, una concezione del mondo.
Esse sono, molto spesso, la scelta del male minore, sempre precaria. E anche
questo è esigente, e difficile.
Ecco perché ascoltando la Chiesa su questi argomenti non
facciamo spallucce. Ascoltiamo una voce che trae la sua forza dal reale e la
sua chiarezza da un pensiero in cui la ragione dialoga con una concezione
trascendente dell’uomo. Noi ascoltiamo con interesse, con rispetto, e possiamo
perfino far nostri molti dei suoi punti. Ma questa voce della Chiesa, nel
profondo voi e io lo sappiamo, non può essere ingiuntiva. Perché essa è fatta
dell’umiltà di quanti impastano il temporale. Essa non può quindi che essere
interrogativa. E su tutti questi argomenti, in particolare sui due temi che ho
appena evocato – poiché si costruiscono in profondità in tali tensioni etiche
tra i nostri principî – talvolta i nostri ideali e il reale ci riportano
all’umiltà profonda della nostra condizione.
Lo Stato e la Chiesa appartengono a due ordini istituzionali
differenti, che non esercitano il loro mandato sul medesimo piano. Ma tutti e
due esercitano un’autorità e perfino una giurisdizione. Così, ciascuno di noi
ha forgiato le nostre certezze e noi abbiamo il dovere di formularle
chiaramente, per stabilire delle regole – perché è il nostro dovere di Stato.
Anche il cammino che condividiamo potrebbe ridursi a non essere se non il
commercio delle nostre certezze.
Ma noi sappiamo pure – voi come noi – che il nostro compito
va al di là. Noi sappiamo che esso riguarda il far vivere il soffio di ciò che
serviamo, di farne crescere la fiamma, anche se è difficile e soprattutto se è
difficile. Noi dobbiamo costantemente sottrarci alla tentazione di agire da
semplici funzionari di ciò che ci è stato affidato.
Ed è per questo che il nostro scambio deve fondarsi non
sulla solidità di certe certezze, ma sulla fragilità di ciò che ci interroga, e
che talvolta ci lascia smarriti. Noi dobbiamo osare di fondare la nostra
relazione sulla condivisione delle incertezze. Vale a dire sulla condivisione
delle domande, e in particolare delle domande dell’uomo.
Ecco dove il nostro scambio è sempre stato più fecondo:
nella crisi, di fronte all’incognito, di fronte al rischio, nella coscienza
condivisa del passo da muovere, della scommessa da tentare. Ed ecco dove la
nostra nazione s’è più spesso magnificata della sapienza della Chiesa, perché
ecco sono secoli e millenni che la Chiesa tenta le proprie scommesse e osa il proprio
rischio. È così che essa ha arricchito la nazione.
E questa – se voi mi autorizzate – la parte cattolica della
Francia. È questa parte che nell’orizzonte secolare instilla comunque la
questione inquieta della salvezza, che ciascuno – sia credente o non credente –
interpreterà a modo suo, ma di cui ciascuno presente ch’essa mette in gioco
tutta intera la sua vita, il senso di questa vita, la portata che le si
conferisce e la traccia che lascerà.
Quest’orizzonte della salvezza è totalmente scomparso dall’ordinario
delle società contemporanee, certo, ma è sbagliato e vediamo da molti segni che
esso dimora inevaso. Ciascuno ha la propria maniera di nominarlo, di
trasformarlo, di portarlo. Si tratta però della questione del senso e
dell’assoluto nelle nostre società. Che l’incertezza della salvezza apporti a
tutte le vite, anche le più risolutamente materiali, come un terremoto (nel
senso figurato del termine, naturalmente). Paul Ricœur, se mi autorizzate a
citarlo stasera, ha trovato le parole giuste in una conferenza pronunciata ad
Amiens nel 1967: «Mantenere una meta lontana per gli uomini; chiamiamolo un
ideale, in un senso morale; e una speranza, in un senso religioso».
Quella sera, davanti a un pubblico in cui alcuni avevano la
fede e altri no, Paul Ricœur invitava il proprio uditorio a superare ciò che
chiamava «la prospettiva senza prospettiva» con questa formula che, non ho
dubbi, ci raccoglierà tutti, qui, stasera: «Mirare più in alto, domandare di
più. Questo è la speranza: si attende sempre più di quanto sia effettuabile».
Così, la Chiesa non è ai miei occhi quest’istanza di
guardiana dei buoni costumi, che troppo spesso ne diventa caricatura. Essa è
questa fonte d’incertezza che percorre ogni vita, e che fa del dialogo, della
questione, della ricerca, il cuore stesso del senso, anche per quelli che non
credono. Ecco perché il primo dono che vi chiedo è quello dell’umiltà del
domandare, il dono di questa sapienza che trova il proprio radicamento nella
questione dell’uomo e dunque nelle questioni che l’uomo si pone. Perché è
questa, è la Chiesa nel suo splendore, che dice: «Bussate e vi sarà aperto»,
che si pone come risorsa e voce amica in un mondo in cui il dubbio,
l’incertezza, la mutabilità sono di regola, dove il senso sfugge sempre e
sempre si riconquista. È una Chiesa da cui non mi aspetto lezioni, ma piuttosto
questa sapienza d’umiltà in particolare di fronte ai due argomenti che avete
voluto evocare, e che per tutta risposta ho appena disquisito. Perché noi non
possiamo che avere un orizzonte comune, e cercando ogni giorno di fare del
nostro meglio, di accettare in fondo la parte di inquietudine irriducibile che
accompagna la nostra azione.
* * *
Porre domande non è però rifiutarsi di agire. Al contrario,
significa tentare di rendere l’azione conforme a principî che la precedono e
che la fondano. Ed è questa coerenza tra pensiero e azione a fare la forza
dell’impegno che la Francia si aspetta da voi. Questo il secondo dono di cui
volevo parlarvi.
Ciò che schiaccia il nostro Paese – ho già avuto occasione
di dirlo – non è solamente la crisi economica. È il relativismo. È anche il
nichilismo. È tutto quanto lascia pensare che “non ne vale la pena”. Non vale
la pena di imparare. Non vale la pena di lavorare. E soprattutto non vale la
pena di tendere la mano, e di impegnarsi al servizio di qualcosa di più grande
di sé.
Il sistema ha progressivamente rinchiuso i nostri cittadini
nel menefreghismo, non rimunerando più veramente il lavoro, o addirittura
scoraggiando l’iniziativa in sé, proteggendo male i più fragili, mettendo da
parte i più sfavoriti e considerando che l’era postmoderna nella quale eravamo
arrivati era l’era del grande dubbio, che permetteva di rinunciare ad ogni
assoluto.
È in tale contesto di decrescita di solidarietà e speranza
che i cattolici si sono massivamente rivolti all’azione associativa.
All’impegno.
Oggi voi siete una componente maggiore di questa parte della
nazione che ha deciso di occuparsi dell’altra parte: proprio ora ne abbiamo
visto testimonianze molto commoventi. Quelle dei malati, degli isolati, dei
declassati, dei vulnerabili, degli abbandonati, degli handicappati, dei
prigionieri, quali che siano le loro appartenenze etniche o religiose. […] I
francesi non misurano sempre questa mutazione dell’impegno cattolico. Voi siete
passati dalle attività dei lavori sociali a quelle dei militanti associativi
tendendovi presso la parte fragile del nostro Paese, che le associazioni in cui
i cattolici s’impegnano siano o meno esplicitamente cattoliche, come i Restos
du Cœur.
Io temo che i politici si siano troppo lungamente comportati
come se questo fosse un dato scontato. Come se fosse normale. Come se il
sollievo apportato dai cattolici (e da tanti altri) alla sofferenza sociale
sdoganasse una certa impotenza pubblica.
Vorrei salutare con infinito rispetto tutte quelle e tutti
quelli che hanno fatto questa scelta senza far conto del tempo e delle risorse.
E permettetemi anche di salutare tutti i preti e i religiosi che di questo
impegno hanno fatto la loro vita, e che ogni giorno nelle parrocchie francesi
accolgono, scambiano, aprono e si fanno vicini alle tristezze e alle
infelicità, o condividono la gioia delle famiglie negli eventi lieti. Tra loro
si trovano anche le infermiere militari o nelle nostre prigioni, e saluto qui
il loro rappresentante. Anche loro sono persone impegnate. E permettetemi di
associare pure, così facendo, tutte le persone impegnate delle altre religioni,
i cui rappresentanti sono più presenti e che condividono questa comunità
d’impegno con voi.
Questo impegno è vitale per la Francia. E oltre gli appelli,
le ingiunzioni, le interrogazioni che ci rivolgete per dirci di fare di più, di
fare meglio – lo so, tutti lo sappiamo, che il lavoro da voi compiuto non è un
diversivo, ma una parte del cimento stesso della nostra coesione nazionale.
Il dono dell’impegno non è solamente vitale: è esemplare.
Ma sono venuto per chiamarvi a fare ancora di più.
Perché – non è un mistero – l’energia consacrata a questo
impegno associativo è stato anche largamente sottratto all’impegno politico.
Ora, io credo che la politica – per quanto abbia potuto
essere deludente agli occhi di alcuni, o arida agli occhi di altri – abbia
bisogno dell’energia delle persone impegnate, della vostra energia. Essa ha
bisogno dell’energia di quanti danno del senso all’azione e mettono nel proprio
cuore una forma di speranza.
Più che mai l’azione politica ha bisogno di ciò che la
filosofa Simone Weil chiamava l’effettività. Vale a dire quella capacità di far
esistere nel reale i principî fondamentali che strutturano la vita morale,
intellettuale e, nel caso dei credenti, spirituale.
È quanto hanno apportato alla politica francese le grandi
figure che furono il generale de Gaulle, Georges Bidault, Robert Schuman,
Jacques Delors, o ancora le grandi coscienze francesi che hanno rischiarato
l’azione politica, come Clavel, Mauriac, Lubac, Marrou… E non è una pratica
teocratica, né una concezione religiosa del potere, ad aver visto la luce,
bensì un’esigenza cristiana importata nel campo laico della politica.
Questo posto oggi deve essere occupato. Non perché la
politica francese abbia bisogno della propria quota di cattolici, di
protestanti, di ebrei o di musulmani, no; né perché non si potrebbero reclutare
responsabili politici di qualità se non tra i ranghi di gente di fede, ma
perché questa fiamma comune di cui parlavo poco fa a proposito di Arnaud
Beltrame fa parte della nostra storia e di ciò che ha sempre guidato il nostro
Paese. Il nascondimento o il collocamento di questa lampada sotto al moggio non
è una buona notizia.
Ecco perché, dal mio punto di vista – un punto di vista da
Capo di Stato, un punto di vista laico – io devo avere pensierosa cura che
quanti lavorano nel cuore della società francese, quanti s’impegnano per curare
le sue ferite e consolare i suoi malati, abbiano anche una voce sulla scena
politica. Sulla scena politica nazionale come sulla scena politica europea. È a
questo che voglio chiamarvi stasera: ad impegnarvi politicamente, nel nostro
dibattito nazionale e nel nostro dibattito europeo. Perché la vostra fede è una
parte dell’impegno di cui questo dibattito ha bisogno. E perché, storicamente,
l’avete sempre nutrito.
Giacché l’effettività implica di non disconnettere l’azione
individuale dall’azione politica e pubblica.
A tal proposito, mi corre l’obbligo di richiamare la
perfetta chiarezza del testo proposto dalla Conferenza dei Vescovi nel novembre
2016, in vista dell’elezione presidenziale. Recava il titolo: «Ritrovare il
senso del politico».
Avevo fondato En Marche ! qualche mese prima e – senza voler
intavolare ora una questione di diritti d’autore, Monsignore – ho letto queste
frasi la cui consonanza con ciò che ha guidato il mio impegno mi colpì. Vi si
trova scritto che… cito:
Noi non possiamo lasciare che il nostro Paese rischi di
veder seriamente deteriorato ciò su cui si fonda, con tutte le conseguenze che
una società divisa può conoscere. È a un lavoro di rifondazione che ci tocca,
tutti insieme, porre mano.
Ricerca di senso, di nuove solidità, ma anche speranza
nell’Europa: questo documento enumera tutto ciò che può portare un cittadino a
impegnarsi, e si rivolge al cattolico legando con semplicità la fede all’impegno
politico mediante questa formula, che cito:
Il pericolo sarebbe quello di dimenticare ciò che ci ha
costruiti, o all’inverso il sognare il ritorno a un’immaginaria età dell’oro,
oppure aspirare a una Chiesa di puri e a una contro-cultura situata fuori dal
mondo, in posizione sovrastante e di giudizio.
Dopo troppo tempo, il campo politico era divenuto un teatro
di ombre. E ancora oggi la narrazione politica si rifà troppo spesso agli
schemi più triti e più riduttivi, come se ignorasse il soffio della Storia e
ciò che il ritorno del tragico nel nostro mondo contemporaneo esige da noi.
Da parte mia, io penso che possiamo costruire una politica
effettiva, una politica che sfugga al cinismo ordinario per imprimere nel reale
quello che deve essere il primo pensiero del politico, e intendo la dignità
dell’uomo.
Io credo in un impegno politico che serva questa dignità.
Che la ricostruisca dov’è stata calpestata. Che la preservi dov’è minacciata.
Che ne faccia il vero tesoro di ogni cittadino.
Io credo nell’impegno politico che permette di restaurare la
prima tra le dignità, quella di vivere del proprio lavoro. Io credo in questo
impegno politico, che permette di risollevare la dignità più fondamentale,
quella dei più fragili. Quella che giustamente non si risolve in alcuna
fatalità sociale – e voi ne siete stati degli esempi magnifici tutti e sei,
proprio ora – e che ritiene che fare opera d’impegno politico sia anche mutare
le pratiche lì dove si è della società, nonché il proprio sguardo.
Le sei voci che abbiamo ascoltato all’inizio di questa
serata sono sei voci d’impegno, che ha in sé una forma di impegno politico, il
quale non vuole se non proseguire questo cammino per trovare anche altri
sbocchi, ma in cui ogni volta ho voluto leggere il rifiuto di un fatalismo, una
volontà di occuparsi dell’altro e soprattutto la volontà, per la ragione già
detta, di una conversione di sguardi.
È questo l’impegno in una società. È investire tempo,
energie, è considerare che la società non è un corpo morto che non sarebbe modificabile
da politiche pubbliche o da testi, e che non sarebbe sottomessa se non alla
fatalità dei tempi; è che tutto può essere cambiato, se si decide di
impegnarsi, di fare e, mediante la propria azione, di cambiare il proprio
sguardo attraverso la propria azione di offrire una possibilità all’altro, ma
anche di rivelare a noi stessi che l’altro ci trasforma.
Oggi si parla molto di incisività. Non è una parola carina e
io non sono sicuro che sia sempre compresa da tutte e da tutti. Però vuol dire
questo. Ciò che noi tentiamo di fare sull’autismo, sull’handicap, ciò che io
voglio che continuiamo a fare per restaurare la dignità dei nostri prigionieri.
Ciò che voglio che proseguiamo per la dignità dei più fragili nelle nostre
società è semplicemente considerare che c’è sempre un altro, in un dato momento
per il quale egli può fare qualcosa o nulla, e che questo altro ha qualcosa da
apportare alla società.
Andate in una scuola o a un asilo – noi ci siamo stati
qualche giorno fa, dove avevano collocati dei piccoli bambini con problemi di
autismo – e vedrete che cosa apportano agli altri bambini. E glie lo dico,
Signore, non pensi semplicemente che noi vi aiutiamo: noi abbiamo visto, prima,
nell’emozione di suo fratello, tutto quanto lei gli ha apportato e che nessun
altro avrebbe potuto apportargli. Questa conversione dello sguardo la rende
possibile solo l’impegno. E al cuore di detto impegno, una indignazione
profonda, umanistica, etica. La nostra società politica ne ha bisogno.
E questo impegno che voi portate, io ne ho bisogno per il
nostro Paese come ne ho bisogno per la nostra Europa. Perché il nostro rischio
principale, oggi, è l’anomia, è l’atonia, è l’assopimento. Abbiamo troppi
concittadini che pensano che ciò che è stato acquisito sia diventato naturale;
che dimenticano le grandi oscillazioni a cui la nostra società e il nostro
continente sono oggi sottomessi. Vogliono pensare che ciò non sia mai stato,
dimenticando che la nostra Europa non vive che al principio di una parentesi
dorata che non conta più di 70 anni di pace, ma che di per sé è stata sempre
dilaniata da guerre. Troppi nostri concittadini pensano che la fraternità di
cui si parla sia una questione di denaro pubblico e di politica pubblica, e che
non ci sarebbe una loro parte indispensabile in tutte le battaglie che sono al
cuore dell’impegno politico contemporaneo. I parlamentari qui presenti le
portano nella loro parte di verità, che si tratti di lottare contro il
riscaldamento climatico, di lottare per un’Europa che protegga e che riveda le
proprie ambizioni in vista di una società più giusta, ma non saranno possibili
se a tutti i livelli della società non saranno accompagnati da un impegno
politico profondo, un impegno politico al quale io chiamo i cattolici, per il
nostro Paese e per la nostra Europa.
Il dono dell’impegno che vi domando è questo: non restate
sulla soglia. Non rinunciate alla Républiqueche tanto fortemente avete
contribuito a forgiare. Non rinunciate a questa Europa, di cui voi avete
nutrito il senso. Non lasciate in malora le terre che voi avete seminato. Non
sottraete alla République la preziosa rettitudine che tanti anonimi fedeli apportano con la
loro vita di cittadini.
Al cuore di quest’impegno, di cui il nostro Paese ha
bisogno, c’è la parte d’indignazione e di fiducia nell’avvenire che voi potete
apportare.
Tuttavia, per rassicurarvi, non è un arruolamento che sono
venuto a proporvi. E sono anzi venuto a domandarvi un terzo dono che voi potete
fare alla nazione, ed è precisamente quello della vostra libertà.
* * *
Condividere il cammino non significa sempre marciare col
medesimo passo.
Mi ricordo di quel bel testo in cui Emmanuel Mounier spiega
che la Chiesa, in politica, è sempre stata al contempo all’avanguardia e in
ritardo. Mai esattamente contemporanea. Mai completamente del suo tempo. Questo
fa digrignare i denti a qualcuno…
Ma bisogna accettare tale tempo sfalsato. Bisogna accettare
che non tutto, nel nostro mondo, segua il medesimo ritmo. E la prima libertà di
cui la Chiesa può fare dono è quella di essere intempestiva. Alcuni la trovano
reazionaria. Altri, su altri argomenti, perfino troppo audace. Io credo
semplicemente che essa debba essere uno di quei punti fissi di cui la nostra
umanità ha bisogno tra i marosi di questo mondo divenuto oscillante. Uno di
quei punti di riferimento che non cedono agli umori dei tempi.
Ecco perché, Monsignore, Signore e Signori, ci toccherà
procedere passo passo col vostro lato intempestivo e con la necessità, che io
avrò, di stare nel tempo del Paese. Ed è questo squilibrio costante che ci farà
camminare insieme.
«La vita attiva – diceva Gregorio – è servizio, la vita
contemplativa è libertà»: mentre ricordo l’importanza di questa parte
intempestiva e del punto fisso che voi potete rappresentare, stasera vorrei
avere un pensiero per tutte quelle e tutti quelli che si sono impegnati in una
vita reclusa, o una vita comunitaria, una vita di preghiera e di lavoro. Anche
se ad alcuni essa sembra fuori tempo, questo tipo di vita è pure l’esercizio di
una libertà. Essa dimostra che il tempo della Chiesa non è quello del mondo, e
certamente non è quello della politica così come va oggi – anche questo è un
bene.
Ciò che mi aspetto che la Chiesa ci offra è anche la propria
libertà di parola. Abbiamo parlato di allerta lanciati dalle associazioni o
dall’episcopato. Penso anche agli ammonimenti del Papa, che trova nell’adesione
costante al reale di che richiamare le esigenze della condizione umana. Questa
libertà di parola, in un’epoca in cui i diritti fioriscono, presenta sovente la
particolarità di richiamare ai doveri dell’uomo. Verso sé stesso, verso il
prossimo o verso il nostro pianeta.
La semplice menzione dei doveri che ci si impongono è
talvolta irritante. Questa voce che sa dire cosa seccanti i nostri concittadini
l’ascoltano, anche se sono lontani dalla Chiesa. È una voce che non è priva di
quell’ironia «talvolta tenera, talvolta gelida» di cui parlava Jean Grosjean
nel suo commentario su Paolo. Una voce che come poche altre sa sovvertire le
certezze ricacciandole nei propri ranghi.
Questa voce che si fa ora rivoluzionaria, ora conservatrice
e spesso entrambe le cose insieme, come diceva Luca nei suoi Paradossi, è
importante per la nostra società. Bisogna essere molto liberi per osare di
essere paradossali, e bisogna essere paradossali per essere veramente liberi. È
quanto ci ricordano i migliori scrittori cattolici, da Maurice Clave ad Alexis
Jenni, da Georges Bernanos a Sylvie Germain, da Paul Claudel a François Sureau,
da François Mauriac a Florence Delay, da Julien Green a Christiane Rancé.
In questa libertà di parola, di sguardo che è il loro, noi
troviamo una parte di ciò che può rischiarare la nostra società. E in questa
libertà di parola io relego la volontà della Chiesa di avviare, di condurre e
di rafforzare il libero dialogo con l’islam, di cui il mondo ha tanto bisogno,
e che lei ha evocato.
Perché non c’è comprensione dell’islam che non passi dal
clero, come non c’è dialogo interreligioso senza religioni.
Questi luoghi lo testimoniano: il pluralismo religioso è un
dato fondamentale del sonoro tempo. Mons. Lustiger ne aveva avuto forte l’intuizione
quando volle far rivivere il Collège des Bernardins per accogliere tutti i
dialoghi. La storia gli ha dato ragione. Non c’è cosa più urgente, oggi, che
accrescere la mutua conoscenza fra i popoli, fra le culture, fra le religioni.
E non c’è altra via, per questo, se non l’incontro: mediante la voce, ma anche
mediante i libri e il lavoro condiviso – tutte cose di cui Benedetto XVI aveva
raccontato il radicamento nel pensiero cistercense in occasione del suo
passaggio qui, nel 2008.
Questa condivisione si esercita in piena libertà, ciascuno
nei propri termini e sulle proprie basi. È il solco indispensabile del lavoro
che lo Stato da parte sua deve condurre per pensare sempre di nuovo il posto
delle religioni nella società e la relazione tra religioni, società e potere
pubblico. E per questo, io conto molto su di voi, su tutti voi, per nutrire
questo dialogo e radicarlo nella nostra storia comune, che ha le sue
particolarità ma di cui la particolarità è di aver sempre attribuito alla
nazione francese la capacità di pensare gli universali. Questa condivisione,
questo lavoro, noi lo conduciamo risolutamente, dopo tanti di esitazione o di
rinuncia. E i mesi a venire saranno decisivi, a tale riguardo.
Questa condivisione che intrattenete è tanto più importante
in quanto i cristiani pagano con la loro vita l’attaccamento al pluralismo
religioso. Penso ai cristiani d’Oriente. Il politico* condivide con la Chiesa
la responsabilità di questi perseguitati. Perché non solamente abbiamo
ereditato dalla storia il dovere di proteggerli, ma sappiamo che ovunque essi
siano, essi sono l’emblema della tolleranza religiosa. Ci tengo a salutare
l’ammirabile lavoro compiuto da movimenti come l’Œuvre d’Orient, Caritas France
e la Comunità di Sant’Egidio per permettere l’accoglienza sul territorio
nazionale delle famiglie rifugiate, e per soccorrerli sul campo col sostegno
dello Stato.
Come dissi in occasione dell’inaugurazione della mostra
Cristiani d’Oriente, all’Institut du Monde Arabe il 25 settembre scorso,
l’avvenire di questa parte del mondo non si farà senza la partecipazione di
tutte le minoranze, di tutte le religioni e in particolare dei Cristiani
d’Oriente. Sacrificarli – come alcuni vorrebbero –, dimenticarli, significa
rendere certo che nessuna stabilità, nessun progetto si costruirà durevolmente
in quella regione.
E c’è infine un’ultima libertà di cui la Chiesa deve farci
dono, è la libertà spirituale.
Perché noi non siamo fatti per un mondo che non sia
attraversato se non per scopi materialistici. I nostri contemporanei hanno
bisogno – lo credano o meno – di sentir parlare di un’altra prospettiva
sull’uomo, che non sia quella semplicemente materiale. Hanno bisogno di
estinguere un’altra sete, che è quella di assoluto. Non si tratta qui di
conversione, ma di una voce che, insieme con delle altre, osi ancora parlare
dell’uomo come di un vivente dotato di spirito. Che osi parlare d’altro che del
temporale, ma senza abdicare alla ragione né al reale. Che osi andare
nell’intensità di una speranza e che, talvolta, ci faccia toccare con mano quel
mistero dell’umanità che si chiama la santità, di cui Papa Francesco dice,
nell’esortazione pubblicata oggi, che è «il volto più bello della Chiesa».
Questa libertà è quella di essere voi stessi. Senza cercare
di compiacere né di sedurre. Ma compiendo la vostra opera nella pienezza del
suo senso. Nella regola che le è propria e che da sempre ci vale pensieri
forti, una teologia umana, una Chiesa che sa guidare i più ferventi come i non
battezzati, gli uomini saldi come quelli esclusi.
* * *
Una Chiesa trionfante tra gli uomini non dovrebbe temere di
aver già compromesso tutta la propria elezione, avendo accettato un compromesso
col mondo?
Questa domanda non è mia: sono parole di Jean-Luc Marion,
che dovrebbero giungere come un balsamo alla Chiesa e ai cattolici nelle ore
del dubbio sul posto dei cattolici in Francia, su quanto la Chiesa venga
ascoltata, sulla considerazione che viene loro accordata. La Chiesa non è del
mondo, assolutamente, e non deve esserlo. Noi che siamo alle prese col
temporale lo sappiamo e non dobbiamo tentare di trascinarvela integralmente,
non più di quanto dobbiamo fare con alcuna altra religione. Non è il nostro
compito e non è il loro posto.
Ma questo non esclude la fiducia e non esclude il dialogo.
Soprattutto, questo non esclude il mutuo riconoscimento delle nostre forze e
delle nostre debolezze, delle nostre imperfezioni istituzionali e umane.
Perché viviamo in un’epoca in cui l’alleanza delle buone
volontà è troppo preziosa per tollerare che esse perdano tempo a giudicarsi a
vicenda. Dobbiamo ammettere una volta per tutte la scomodità di un dialogo che
riposa sulla disparità delle nostre nature, ma anche ammettere la necessità di
questo dialogo, perché operiamo – ciascuno nel nostro ordine proprio – per dei
fini comuni, che sono la dignità e il senso.
Certo, le istituzioni politiche non hanno le promesse
dell’eternità; ma la Chiesa stessa non può correre il rischio di estirpare
anzitempo il grano e la zizzania. E in questo punto mediano in cui ci troviamo,
in cui abbiamo ricevuto il carico dell’eredità dell’uomo e del mondo, sì, se
sappiamo giudicare le cose con esattezza, potremo compiere grandi cose insieme.
Forse questo significa assegnare alla Chiesa di Francia una
responsabilità esorbitante, ma essa è commisurata alla nostra storia, e il
nostro incontro di stasera attesta, penso, che voi siete pronti per questo.
Monsignore, Signore e Signori, in ogni caso sappiate che
anche io sono pronto.
Vi ringrazio.
[traduzione a cura © di Giovanni Marcotullio]