martedì 24 aprile 2018

Emmanuel Macron ai vescovi di Francia: ridiamo un'anima alla politica, alla Francia, all'Europa


Rispondendo all'auspicio del Cardinal Parolin a Davos, https://youtu.be/iF1rWoSglEM
Emmanuel Macron è intervenuto davanti alla conferneza episcopale francese. IL testo è stato pubblicato in italiano nel blog Breviarium.

Signor Ministro di Stato,

Signore Ministre,

Signore e Signori Parlamentari,

Signor Nunzio,

Signore e Signori ambasciatori,

Signore e Signori rappresentanti dei culti,

Monsignore,

Signore e Signori,

La ringrazio vivamente, Monsignore, e ringrazio la Conferenza dei Vescovi di Francia per l’invito ad esprimermi qui stasera, in questo luogo tanto particolare e bello che è il Collège des Bernardins, del quale voglio pure ringraziare i responsabili e i collaboratori.

Per ritrovarci qui stasera, Monsignore, abbiamo senza dubbio sfidato gli scettici di entrambi i versanti. E se l’abbiamo fatto, è senza dubbio perché condividiamo confusamente il sentimento che il legame tra la Chiesa e lo Stato si è deteriorato, e che a lei come a me interessa ripararlo.

Per questo, non c’è altro mezzo oltre a quello di un dialogo in verità.

Tale dialogo è indispensabile, e se io dovessi riassumere il mio punto di vista, direi così: una Chiesa che pretendesse di disinteressarsi delle questioni temporali non assolverebbe fino in fondo alla propria vocazione; e un presidente della République che pretendesse di disinteressarsi della Chiesa e dei cattolici verrebbe meno al proprio dovere.

L’esempio del colonnello Beltrame mediante il quale, Monsignore, lei ha appena concluso il suo intervento, illustra tale punto di vista in una maniera che mi pare luminosa.

Molti, da quel tragico 23 marzo, hanno cercato di dare un nome alla sorgente segreta del suo gesto eroico.

Alcuni vi hanno visto l’accettazione del sacrificio ancorata nella sua vocazione militare. Altri vi hanno visto la manifestazione di una fedeltà repubblicana nutrita dal suo percorso massonico. Altri, infine, e in particolare la sua sposa, hanno interpretato il suo atto come la traduzione della sua fede cattolica ardente, pronta alla prova suprema della morte.

Queste dimensioni, in realtà, sono talmente intrecciate che è impossibile sbrogliarle, anzi è anche inutile, perché questa condotta eroica è la verità di un uomo in tutta la sua complessità che si è consegnata e manifestata.

Ma in questo Paese di Francia, che mal gestisce la propria diffidenza riguardo alle religioni, non ho inteso una sola voce levarsi per contestare questa evidenza, incisa nel cuore del nostro immaginario collettivo, e cioè: quando viene l’ora della più grande intensità, quando la prova comanda di raccogliere tutte le risorse che si hanno in sé al servizio della Francia, la parte del cittadino e la parte del cattolico bruciano, nel vero credente, di una medesima fiamma.

Io sono convinto che i legami più indistruttibili tra la nazione francese e il cattolicesimo si siano forgiati in questi momenti ove s’è verificato il valore reale degli uomini e delle donne. Non c’è bisogno di risalire ai costruttori di cattedrali e a Giovanna d’Arco: la storia recente ci offre mille esempî – dalla Sacra Unione del 1914 fino alla Resistenza degli anni ’40, dai Giusti ai rifondatori della République, dai Padri dell’Europa agli inventori del sindacalismo moderno, dalla gravità eminentemente degna che seguì l’assassinio di padre Hamel alla morte del colonnello Beltrame. Sì, la Francia è stata fortificata dall’impegno dei cattolici.

Dicendo questo, non sono confuso e non mi contraddico. Se i cattolici hanno voluto servire e rendere grande la Francia, se hanno accettato di morire, ciò non è stato solo in nome di ideali umanistici. Ciò non è stato solamente in nome di una morale giudeo-cristiana secolarizzata. Ciò è stato perché erano portati dalla loro fede in Dio e dalla loro pratica religiosa.

Alcuni potranno considerare che tali affermazioni vadano ad incrinare la laicità. Ma dopotutto, anche noi contiamo martiri ed eroi di ogni confessione e la nostra storia recente ce l’ha mostrato ancora – vi sono stati anche degli atei che hanno trovato nel fondo della loro morale le risorse per un sacrificio completo. Riconoscere gli uni non significa sminuire gli altri, e io penso che la laicità non abbia certo per fine la negazione dello spirituale in nome del temporale, né sradicare dalle nostre società la parte sacra che nutre tanti nostri concittadini.

Come capo dello Stato, io sono garante della libertà di credere e di non credere, ma non sono né l’inventore né il promotore di una religione di Stato che sostituisca alla trascendenza divina un credo repubblicano. Chiudere volontariamente gli occhi sulla dimensione spirituale che i cattolici investono nella loro vita morale, intellettuale, famigliare, professionale, sociale, significherebbe condannarmi a non avere se non una vista parziale della Francia; sarebbe misconoscere il Paese, la sua storia, i suoi cittadini; e affettando indifferenza io derogherei alla mia missione.

E questa stessa indifferenza io non ce l’ho neppure per tutte le confessioni che oggi popolano il nostro Paese.

* * *

Proprio perché non sono indifferente, percepisco quanto il cammino che lo Stato e la Chiesa condividono da così tanto tempo sia oggi disseminato di malintesi e di reciproche diffidenze.

Non è certo la prima volta, nella nostra storia. È della natura della Chiesa l’interrogare costantemente il proprio rapporto con il politico*, con quell’esitazione perfettamente descritta da Marrou nella sua Teologia della storia, e la storia di Francia ha visto succedersi momenti in cui la Chiesa si installava nel cuore della città e momenti in cui si accampava extra mœnia.

Ma oggi, in questo momento di grande fragilità sociale, quando lo stesso tessuto della nazione minaccia di sbrindellarsi, io considero mia responsabilità non lasciar erodere la fiducia dei cattolici riguardo alla politica – e ai politici. Io non posso rassegnarmi a questo spopolamento. E non potrei lasciare che questa rovina si aggravi.

È tanto più vero che la situazione attuale è meno il frutto di una decisione della Chiesa che il risultato di molti anni durante i quali i politici hanno profondamente misconosciuto i cattolici di Francia.

Così da un lato una parte della classe politica ha senza dubbio cavalcato il legame coi cattolici, per delle ragioni sovente fin troppo evidentemente elettoraliste.

Così facendo, abbiamo ridotto i cattolici a quello strano animale che si chiama “l’elettorato cattolico”, e che in realtà è un ente sociologico. E ne abbiamo così fatto il letto di una visione comunitarista che contraddice la diversità e la vitalità della Chiesa in Francia, ma pure l’aspirazione del cattolicesimo all’universale – come indica il suo nome – a profitto di una riduzione categoriale abbastanza mediocre.

Dall’altro lato, abbiamo trovato tutte le ragioni per non ascoltare i cattolici, relegandoli per diffidenza acquisita e per calcolo al rango di minoranza militante in senso contrario all’unanimità repubblicana.

Per ragioni che sono insieme biografiche, personali e intellettuali, io ho un’idea più alta, dei cattolici. E non mi sembra né sano né buono che il politico1 si sia ingegnato con tanta determinazione sia a strumentalizzarli sia a ignorarli, mentre è di un dialogo e di una cooperazione di tutt’altro calibro, di un contributo di tutt’altro peso alla comprensione del nostro tempo e all’azione, ciò di cui abbiamo bisogno per far sì che le cose evolvano nella direzione giusta.

Questo è quanto la sua bella allocuzione ha mostrato, Monsignore. Le preoccupazioni che ha appena sollevato – e proverò a rispondere o a gettare un lume provvisorio su alcune di esse – tali preoccupazioni non sono i fantasmi di alcuni. Le questioni che sono le vostre non si limitano agli interessi di una comunità ristretta. Sono questioni per tutti noi, per tutta la nazione, per la nostra umanità tutta intera.

Questo interrogarsi interessa tutta la Francia non perché è specificamente cattolico, ma perché esso riposa su un’idea dell’uomo, del suo destino, della sua vocazione, che sta al cuore del nostro divenire prossimo. Perché esso intende offrire un senso e dei punti di riferimento a ciò che troppo spesso ne manca.

Ed è perché intendo rendere giustizia a questi interrogativi che sono qui stasera. E per domandarvi solennemente di non sentirvi ai margini della République, ma di ritrovare il gusto e il sapido senso del ruolo che avete sempre ricoperto.

So che s’è dibattuto delle radici cristiane d’Europa come del sesso degli angeli. E che questa definizione è stata scartata dai parlamentari europei. Ma dopotutto, l’evidenza storica passa talvolta dai simboli. E soprattutto, non sono le radici a importarci, perché esse possono pure essere morte. Ciò che importa è la linfa. E io sono convinto che la linfa cattolica debba contribuire ancora e sempre a far vivere la nostra nazione.

È per tentare di capire questo che sono qui stasera. Per dirvi che la République si aspetta molto da voi. Essa si aspetta nella fattispecie, se me lo permettete, che voi le facciate tre doni:

il dono della vostra sapienza;

il dono del vostro impegno;

e il dono della vostra libertà.

* * *

L’urgenza della nostra politica contemporanea è di ritrovare il suo radicamento nella questione dell’uomo o – per dirla con Mounier – della persona.

Noi non possiamo più, in questo mondo che va come va, essere soddisfatti di un progresso economico o scientifico che non si interroghi sul suo impatto sull’umanità e sul mondo. È quanto sono andato a dire alla tribuna delle Nazioni Unite a New York, ma anche a Davos o ancora al Collège de France qualche giorno fa, quando ho parlato di intelligenza artificiale: abbiamo bisogno di dare un fine alla nostra azione, e questo fine è l’uomo.

Ora, non è possibile avanzare su questa strada senza incrociare il cammino del cattolicesimo, che da secoli pazientemente cesella tale interrogarsi. E lo cesella nel suo proprio interrogarsi, in un dialogo con le altre religioni. Un interrogarsi che gli dà la forma di un’architettura, di una pittura, di una filosofia, di una letteratura, che tentino – tutte, in mille maniere – di esprimere la natura umana e il senso della vita. «Venerabile perché ha ben conosciuto l’uomo», dice Pascal riguardo alla religione cristiana. E certo, altre religioni, altre filosofie hanno incrociato il mistero dell’uomo. Ma la secolarizzazione non potrebbe eliminare la lunga tradizione cristiana.

Al cuore di questa domanda sul senso della vita, sul posto che riserviamo alla persona, sul modo in cui noi le conferiamo la sua dignità, lei ha collocato due argomenti del nostro tempo, Monsignore: la bioetica e i migranti.

Lei ha così stabilito un legame intimo tra due argomenti che la politica e la morale ordinarie avrebbero volentieri trattato a parte. Lei considera che sia nostro dovere il proteggere la vita, in particolare quando questa vita sia indifesa. Tra la vita del bambino che deve nascere, quella dell’essere giunto sulle soglie della morte o quella del rifugiato che ha perduto tutto, lei vede questo tratto comune della spoliazione, della nudità e dell’assoluta vulnerabilità. Questi esseri sono esposti. Essi attendono tutto dall’altro, dalla mano che si tende, dalla benevolenza che si prenderà cura di loro. Questi due argomenti mobilitano la nostra parte più umana e la concezione stessa che abbiamo dell’umano. E tale coerenza s’impone a tutti.

Allora ho sentito, Monsignore, Signore e Signori, le inquietudini che salgono dal mondo cattolico. E voglio qui tentare di rispondere, o in ogni caso di apportare la nostra parte di verità e di convinzione.

Sui migranti, ci si rimprovera talvolta di non accogliere con sufficiente generosità e dolcezza. Di lasciare che nei centri di detenzione prendano piede casi preoccupanti o di respingere i minori isolati. Ci si accusa anche di lasciar prosperare violenze poliziesche.

Però a dire il vero… che cosa stiamo facendo? Tentiamo con urgenza di mettere un termine a situazioni che abbiamo talvolta ereditato e che si sviluppano a causa dell’assenza di regole, o della loro cattiva applicazione, o della loro cattiva qualità – e penso qui ai ritardi nei trattamenti amministrativi, ma anche alle condizioni di rilascio del titolo di rifugiati.

Il nostro lavoro, quello che ogni giorno espleta il ministro di Stato, è di uscire dall’incertezza giuridica delle persone che vi si perdono e che sperano invano, che tentano di ricostruire qualcosa qui, dopo essere stati espulsi, mentre altri che potrebbero vivere la loro vita da noi soffrono condizioni d’accoglienza degradate in centri straripanti.

È la conciliazione del diritto e dell’umanità che tentiamo. Papa Francesco ha dato un nome a codesto equilibrio, lo ha chiamato “prudenza”, facendo di tale virtù aristotelica quella del governatore, confrontata naturalmente alla necessità umana di accogliere ma pure a quelle politica e giuridica di ospitare e di integrare. È il punto di ricaduta di quest’umanesimo realista che ho fissato.

Ci saranno sempre situazioni difficili, ci saranno talvolta situazioni inaccettabili e bisognerà, ogni volta, insieme, fare di tutto per risolverle. Ma non dimentico neppure che portiamo pure la responsabilità di territori sovente difficili in cui i rifugiati arrivano. Sappiamo che i flussi di nuove popolazioni gettano la popolazione locale nell’incertezza, la spinge verso opzioni politiche estreme, scatena sovente un ripiego che ha qualcosa del riflesso di protezione. Vede la luce una forma di angoscia quotidiana che alimenta una guerra tra poveri.

La nostra esigenza sta appunto in una tensione etica permanente fra questi principî. Quello di un umanesimo che è il nostro e di non risparmiare alcunché – in particolare per proteggere i rifugiati. È nostro dovere morale ed è scritto nella nostra Costituzione. Impegnarci chiaramente perché l’ordine repubblicano sia mantenuto e perché questa protezione dei più deboli non significhi però l’anomia e l’assenza di discernimento, perché ci sono anche delle leggi che occorrerà far valere. E perché si trovino dei posti – come si diceva poco fa riguardo ai centri d’accoglienza o nelle situazioni più difficili – bisogna accettare che, facendoci carico della nostra parte di miseria, non possiamo accollarcela tutta intera e senza distinzione fra situazioni. E dobbiamo anche mantenere la coesione nazionale del nostro Paese, nel quale talvolta alcuni non parlano più di questa generosità che stasera evochiamo, ma non vogliono vedere che il lato spaventoso dell’altro. E nutrono questo gesto per far progredire il loro progetto.

È proprio perché dobbiamo mantenere questi principî talvolta contraddittori in una tensione costante che ho voluto che portassimo questo umanesimo realista e che lo assumo pienamente davanti a voi.

Lì dove abbiamo bisogno della vostra sapienza, è anzitutto per tenere questo discorso di umanesimo realista. È per condurre all’impegno di quelle e di quelli che potranno aiutarci, ed è per evitare i discorsi disfattisti, l’avanzata delle paure che continueranno a nutrirsi di questa parte di noi, perché i flussi massivi di cui lei ha parlato e di cui ora io parlo non si estingueranno dall’oggi al domani. Essi sono il frutto di grandi squilibri nel mondo, e che si tratti di conflitti politici, che si tratti di miseria economica e sociale o di sfide climatiche, essi continueranno ad alimentare negli anni e nei decenni a venire grandi migrazioni con le quali noi saremo messi a confronto. E bisognerà che continuiamo a tenere saldamente il punto. Che tentiamo costantemente di tenere i nostri principî nel reale. E in questa materia io non cederò alle scorciatoie né degli uni né degli altri. Sarebbe venir meno alla mia missione.

* * *

Sulla bioetica siamo talvolta sospettati di avere un’agenda segreta. Di conoscere in anticipo i risultati di un dibattito che aprirà nuove possibilità nella procreazione assistita, aprendo la porta a pratiche che irresistibilmente s’imporranno a seguire, come la Gestazione Per Altri. E alcuni si dicono che l’introduzione in questi dibattiti di rappresentanti della Chiesa cattolica, come dell’insieme dei rappresentanti dei culti, come fin dall’inizio del mio mandato mi sono impegnato a fare, è uno specchietto per le allodole, destinato a diluire la parola della Chiesa o a prenderla in ostaggio.

Voi lo sapete, ho deciso che il parere del Consiglio consultivo nazionale di Etica (CCNE), Signor Presidente, non fosse sufficiente e che bisognasse arricchirlo col parere di responsabili religiosi. E ho auspicato pure che tale lavoro sulle leggi bioetiche, che il nostro diritto c’impone di rivedere, possa essere corroborato da un dibattito organizzato dal CCNE ma in cui tutte le famiglie – filosofica, religiosa, politica – e la nostra società avessero a esprimersi in maniera piena e intera. Ciò perché sono convinto che non siamo di fronte a un problema semplice che possa essere squadrato da una sola legge. Siamo bensì di fronte a dibattiti morali ed etici profondi, che toccano il più intimo di ciascuno fra noi.

Ascolto la Chiesa quando si mostra rigorosa sulle fondazioni umane di ogni evoluzione etica. Ascolto la vostra voce quando essa c’invita a non ridurre all’agire tecnico di cui lei ha perfettamente mostrato i limiti. Ascolto il posto essenziale che nella società voi date alla famiglia… alle famiglie, oserei dire. Ascolto anche questa cura di saper coniugare la filiazione con i progetti che i genitori possono avere per i loro bambini.

Siamo quindi confrontati a una società in cui le forme della famiglia evolvono radicalmente, in cui lo statuto del bambino si trova talvolta ingarbugliato. E i nostri concittadini sognano di fondare cellule famigliari. Ora, oggigiorno i nostri concittadini sognano di fondare cellule famigliari di modello tradizionale a partire da schemi famigliari che lo sono di meno. Ascolto le rivendicazioni che formulano le istanze cattoliche, le associazioni cattoliche, ma anche lì, alcuni principî enunciati dalla Chiesa vengono a confrontarsi con realtà contraddittorie e complesse, che attraversano gli stessi cattolici.

Tutti i giorni, tutti i giorni, le medesime associazioni cattoliche e i preti accompagnano famiglie monoparentali, famiglie divorziate, famiglie omosessuali, famiglie che ricorrono all’aborto, alla fecondazione in vitro, alla PMA, famiglie che si confrontano con lo stato vegetativo di un loro membro, famiglie in cui uno crede e l’altro no, infliggendo nella famiglia lo strappo di scelte spirituali e morali. E questo – lo so – è pure il vostro quotidiano.

La Chiesa accompagna infaticabilmente queste situazioni delicate e tenta di conciliare i propri principî e il reale. Ecco perché non sto dicendo che l’esperienza del reale disfaccia o invalidi le posizioni adottate dalla Chiesa.

Dico semplicemente che anche lì bisogna trovare il limite. Perché la società è aperta a tutti i possibili, ma la manipolazione e la fabbricazione del vivente non possono estendersi all’infinito senza rimettere in causa l’idea stessa dell’uomo e della vita. Così, il politico* e la Chiesa condividono questa missione di mettere le mani nella melma del reale, di confrontarsi tutti i giorni perché il temporale – oso dirlo – sia sempre più temporale.

E ciò risulta sovente duro, complicato, esigente e imperfetto. E le soluzioni non vengono da sé. Esse nascono dall’articolazione tra il reale e un pensiero, un sistema di valore, una concezione del mondo. Esse sono, molto spesso, la scelta del male minore, sempre precaria. E anche questo è esigente, e difficile.

Ecco perché ascoltando la Chiesa su questi argomenti non facciamo spallucce. Ascoltiamo una voce che trae la sua forza dal reale e la sua chiarezza da un pensiero in cui la ragione dialoga con una concezione trascendente dell’uomo. Noi ascoltiamo con interesse, con rispetto, e possiamo perfino far nostri molti dei suoi punti. Ma questa voce della Chiesa, nel profondo voi e io lo sappiamo, non può essere ingiuntiva. Perché essa è fatta dell’umiltà di quanti impastano il temporale. Essa non può quindi che essere interrogativa. E su tutti questi argomenti, in particolare sui due temi che ho appena evocato – poiché si costruiscono in profondità in tali tensioni etiche tra i nostri principî – talvolta i nostri ideali e il reale ci riportano all’umiltà profonda della nostra condizione.

Lo Stato e la Chiesa appartengono a due ordini istituzionali differenti, che non esercitano il loro mandato sul medesimo piano. Ma tutti e due esercitano un’autorità e perfino una giurisdizione. Così, ciascuno di noi ha forgiato le nostre certezze e noi abbiamo il dovere di formularle chiaramente, per stabilire delle regole – perché è il nostro dovere di Stato. Anche il cammino che condividiamo potrebbe ridursi a non essere se non il commercio delle nostre certezze.

Ma noi sappiamo pure – voi come noi – che il nostro compito va al di là. Noi sappiamo che esso riguarda il far vivere il soffio di ciò che serviamo, di farne crescere la fiamma, anche se è difficile e soprattutto se è difficile. Noi dobbiamo costantemente sottrarci alla tentazione di agire da semplici funzionari di ciò che ci è stato affidato.

Ed è per questo che il nostro scambio deve fondarsi non sulla solidità di certe certezze, ma sulla fragilità di ciò che ci interroga, e che talvolta ci lascia smarriti. Noi dobbiamo osare di fondare la nostra relazione sulla condivisione delle incertezze. Vale a dire sulla condivisione delle domande, e in particolare delle domande dell’uomo.

Ecco dove il nostro scambio è sempre stato più fecondo: nella crisi, di fronte all’incognito, di fronte al rischio, nella coscienza condivisa del passo da muovere, della scommessa da tentare. Ed ecco dove la nostra nazione s’è più spesso magnificata della sapienza della Chiesa, perché ecco sono secoli e millenni che la Chiesa tenta le proprie scommesse e osa il proprio rischio. È così che essa ha arricchito la nazione.

E questa – se voi mi autorizzate – la parte cattolica della Francia. È questa parte che nell’orizzonte secolare instilla comunque la questione inquieta della salvezza, che ciascuno – sia credente o non credente – interpreterà a modo suo, ma di cui ciascuno presente ch’essa mette in gioco tutta intera la sua vita, il senso di questa vita, la portata che le si conferisce e la traccia che lascerà.

Quest’orizzonte della salvezza è totalmente scomparso dall’ordinario delle società contemporanee, certo, ma è sbagliato e vediamo da molti segni che esso dimora inevaso. Ciascuno ha la propria maniera di nominarlo, di trasformarlo, di portarlo. Si tratta però della questione del senso e dell’assoluto nelle nostre società. Che l’incertezza della salvezza apporti a tutte le vite, anche le più risolutamente materiali, come un terremoto (nel senso figurato del termine, naturalmente). Paul Ricœur, se mi autorizzate a citarlo stasera, ha trovato le parole giuste in una conferenza pronunciata ad Amiens nel 1967: «Mantenere una meta lontana per gli uomini; chiamiamolo un ideale, in un senso morale; e una speranza, in un senso religioso».

Quella sera, davanti a un pubblico in cui alcuni avevano la fede e altri no, Paul Ricœur invitava il proprio uditorio a superare ciò che chiamava «la prospettiva senza prospettiva» con questa formula che, non ho dubbi, ci raccoglierà tutti, qui, stasera: «Mirare più in alto, domandare di più. Questo è la speranza: si attende sempre più di quanto sia effettuabile».

Così, la Chiesa non è ai miei occhi quest’istanza di guardiana dei buoni costumi, che troppo spesso ne diventa caricatura. Essa è questa fonte d’incertezza che percorre ogni vita, e che fa del dialogo, della questione, della ricerca, il cuore stesso del senso, anche per quelli che non credono. Ecco perché il primo dono che vi chiedo è quello dell’umiltà del domandare, il dono di questa sapienza che trova il proprio radicamento nella questione dell’uomo e dunque nelle questioni che l’uomo si pone. Perché è questa, è la Chiesa nel suo splendore, che dice: «Bussate e vi sarà aperto», che si pone come risorsa e voce amica in un mondo in cui il dubbio, l’incertezza, la mutabilità sono di regola, dove il senso sfugge sempre e sempre si riconquista. È una Chiesa da cui non mi aspetto lezioni, ma piuttosto questa sapienza d’umiltà in particolare di fronte ai due argomenti che avete voluto evocare, e che per tutta risposta ho appena disquisito. Perché noi non possiamo che avere un orizzonte comune, e cercando ogni giorno di fare del nostro meglio, di accettare in fondo la parte di inquietudine irriducibile che accompagna la nostra azione.

* * *

Porre domande non è però rifiutarsi di agire. Al contrario, significa tentare di rendere l’azione conforme a principî che la precedono e che la fondano. Ed è questa coerenza tra pensiero e azione a fare la forza dell’impegno che la Francia si aspetta da voi. Questo il secondo dono di cui volevo parlarvi.

Ciò che schiaccia il nostro Paese – ho già avuto occasione di dirlo – non è solamente la crisi economica. È il relativismo. È anche il nichilismo. È tutto quanto lascia pensare che “non ne vale la pena”. Non vale la pena di imparare. Non vale la pena di lavorare. E soprattutto non vale la pena di tendere la mano, e di impegnarsi al servizio di qualcosa di più grande di sé.

Il sistema ha progressivamente rinchiuso i nostri cittadini nel menefreghismo, non rimunerando più veramente il lavoro, o addirittura scoraggiando l’iniziativa in sé, proteggendo male i più fragili, mettendo da parte i più sfavoriti e considerando che l’era postmoderna nella quale eravamo arrivati era l’era del grande dubbio, che permetteva di rinunciare ad ogni assoluto.

È in tale contesto di decrescita di solidarietà e speranza che i cattolici si sono massivamente rivolti all’azione associativa. All’impegno.

Oggi voi siete una componente maggiore di questa parte della nazione che ha deciso di occuparsi dell’altra parte: proprio ora ne abbiamo visto testimonianze molto commoventi. Quelle dei malati, degli isolati, dei declassati, dei vulnerabili, degli abbandonati, degli handicappati, dei prigionieri, quali che siano le loro appartenenze etniche o religiose. […] I francesi non misurano sempre questa mutazione dell’impegno cattolico. Voi siete passati dalle attività dei lavori sociali a quelle dei militanti associativi tendendovi presso la parte fragile del nostro Paese, che le associazioni in cui i cattolici s’impegnano siano o meno esplicitamente cattoliche, come i Restos du Cœur.

Io temo che i politici si siano troppo lungamente comportati come se questo fosse un dato scontato. Come se fosse normale. Come se il sollievo apportato dai cattolici (e da tanti altri) alla sofferenza sociale sdoganasse una certa impotenza pubblica.

Vorrei salutare con infinito rispetto tutte quelle e tutti quelli che hanno fatto questa scelta senza far conto del tempo e delle risorse. E permettetemi anche di salutare tutti i preti e i religiosi che di questo impegno hanno fatto la loro vita, e che ogni giorno nelle parrocchie francesi accolgono, scambiano, aprono e si fanno vicini alle tristezze e alle infelicità, o condividono la gioia delle famiglie negli eventi lieti. Tra loro si trovano anche le infermiere militari o nelle nostre prigioni, e saluto qui il loro rappresentante. Anche loro sono persone impegnate. E permettetemi di associare pure, così facendo, tutte le persone impegnate delle altre religioni, i cui rappresentanti sono più presenti e che condividono questa comunità d’impegno con voi.

Questo impegno è vitale per la Francia. E oltre gli appelli, le ingiunzioni, le interrogazioni che ci rivolgete per dirci di fare di più, di fare meglio – lo so, tutti lo sappiamo, che il lavoro da voi compiuto non è un diversivo, ma una parte del cimento stesso della nostra coesione nazionale.

Il dono dell’impegno non è solamente vitale: è esemplare.

Ma sono venuto per chiamarvi a fare ancora di più.

Perché – non è un mistero – l’energia consacrata a questo impegno associativo è stato anche largamente sottratto all’impegno politico.

Ora, io credo che la politica – per quanto abbia potuto essere deludente agli occhi di alcuni, o arida agli occhi di altri – abbia bisogno dell’energia delle persone impegnate, della vostra energia. Essa ha bisogno dell’energia di quanti danno del senso all’azione e mettono nel proprio cuore una forma di speranza.

Più che mai l’azione politica ha bisogno di ciò che la filosofa Simone Weil chiamava l’effettività. Vale a dire quella capacità di far esistere nel reale i principî fondamentali che strutturano la vita morale, intellettuale e, nel caso dei credenti, spirituale.

È quanto hanno apportato alla politica francese le grandi figure che furono il generale de Gaulle, Georges Bidault, Robert Schuman, Jacques Delors, o ancora le grandi coscienze francesi che hanno rischiarato l’azione politica, come Clavel, Mauriac, Lubac, Marrou… E non è una pratica teocratica, né una concezione religiosa del potere, ad aver visto la luce, bensì un’esigenza cristiana importata nel campo laico della politica.

Questo posto oggi deve essere occupato. Non perché la politica francese abbia bisogno della propria quota di cattolici, di protestanti, di ebrei o di musulmani, no; né perché non si potrebbero reclutare responsabili politici di qualità se non tra i ranghi di gente di fede, ma perché questa fiamma comune di cui parlavo poco fa a proposito di Arnaud Beltrame fa parte della nostra storia e di ciò che ha sempre guidato il nostro Paese. Il nascondimento o il collocamento di questa lampada sotto al moggio non è una buona notizia.

Ecco perché, dal mio punto di vista – un punto di vista da Capo di Stato, un punto di vista laico – io devo avere pensierosa cura che quanti lavorano nel cuore della società francese, quanti s’impegnano per curare le sue ferite e consolare i suoi malati, abbiano anche una voce sulla scena politica. Sulla scena politica nazionale come sulla scena politica europea. È a questo che voglio chiamarvi stasera: ad impegnarvi politicamente, nel nostro dibattito nazionale e nel nostro dibattito europeo. Perché la vostra fede è una parte dell’impegno di cui questo dibattito ha bisogno. E perché, storicamente, l’avete sempre nutrito.

Giacché l’effettività implica di non disconnettere l’azione individuale dall’azione politica e pubblica.

A tal proposito, mi corre l’obbligo di richiamare la perfetta chiarezza del testo proposto dalla Conferenza dei Vescovi nel novembre 2016, in vista dell’elezione presidenziale. Recava il titolo: «Ritrovare il senso del politico».

Avevo fondato En Marche ! qualche mese prima e – senza voler intavolare ora una questione di diritti d’autore, Monsignore – ho letto queste frasi la cui consonanza con ciò che ha guidato il mio impegno mi colpì. Vi si trova scritto che… cito:

Noi non possiamo lasciare che il nostro Paese rischi di veder seriamente deteriorato ciò su cui si fonda, con tutte le conseguenze che una società divisa può conoscere. È a un lavoro di rifondazione che ci tocca, tutti insieme, porre mano.

Ricerca di senso, di nuove solidità, ma anche speranza nell’Europa: questo documento enumera tutto ciò che può portare un cittadino a impegnarsi, e si rivolge al cattolico legando con semplicità la fede all’impegno politico mediante questa formula, che cito:

Il pericolo sarebbe quello di dimenticare ciò che ci ha costruiti, o all’inverso il sognare il ritorno a un’immaginaria età dell’oro, oppure aspirare a una Chiesa di puri e a una contro-cultura situata fuori dal mondo, in posizione sovrastante e di giudizio.

Dopo troppo tempo, il campo politico era divenuto un teatro di ombre. E ancora oggi la narrazione politica si rifà troppo spesso agli schemi più triti e più riduttivi, come se ignorasse il soffio della Storia e ciò che il ritorno del tragico nel nostro mondo contemporaneo esige da noi.

Da parte mia, io penso che possiamo costruire una politica effettiva, una politica che sfugga al cinismo ordinario per imprimere nel reale quello che deve essere il primo pensiero del politico, e intendo la dignità dell’uomo.

Io credo in un impegno politico che serva questa dignità. Che la ricostruisca dov’è stata calpestata. Che la preservi dov’è minacciata. Che ne faccia il vero tesoro di ogni cittadino.

Io credo nell’impegno politico che permette di restaurare la prima tra le dignità, quella di vivere del proprio lavoro. Io credo in questo impegno politico, che permette di risollevare la dignità più fondamentale, quella dei più fragili. Quella che giustamente non si risolve in alcuna fatalità sociale – e voi ne siete stati degli esempi magnifici tutti e sei, proprio ora – e che ritiene che fare opera d’impegno politico sia anche mutare le pratiche lì dove si è della società, nonché il proprio sguardo.

Le sei voci che abbiamo ascoltato all’inizio di questa serata sono sei voci d’impegno, che ha in sé una forma di impegno politico, il quale non vuole se non proseguire questo cammino per trovare anche altri sbocchi, ma in cui ogni volta ho voluto leggere il rifiuto di un fatalismo, una volontà di occuparsi dell’altro e soprattutto la volontà, per la ragione già detta, di una conversione di sguardi.

È questo l’impegno in una società. È investire tempo, energie, è considerare che la società non è un corpo morto che non sarebbe modificabile da politiche pubbliche o da testi, e che non sarebbe sottomessa se non alla fatalità dei tempi; è che tutto può essere cambiato, se si decide di impegnarsi, di fare e, mediante la propria azione, di cambiare il proprio sguardo attraverso la propria azione di offrire una possibilità all’altro, ma anche di rivelare a noi stessi che l’altro ci trasforma.

Oggi si parla molto di incisività. Non è una parola carina e io non sono sicuro che sia sempre compresa da tutte e da tutti. Però vuol dire questo. Ciò che noi tentiamo di fare sull’autismo, sull’handicap, ciò che io voglio che continuiamo a fare per restaurare la dignità dei nostri prigionieri. Ciò che voglio che proseguiamo per la dignità dei più fragili nelle nostre società è semplicemente considerare che c’è sempre un altro, in un dato momento per il quale egli può fare qualcosa o nulla, e che questo altro ha qualcosa da apportare alla società.

Andate in una scuola o a un asilo – noi ci siamo stati qualche giorno fa, dove avevano collocati dei piccoli bambini con problemi di autismo – e vedrete che cosa apportano agli altri bambini. E glie lo dico, Signore, non pensi semplicemente che noi vi aiutiamo: noi abbiamo visto, prima, nell’emozione di suo fratello, tutto quanto lei gli ha apportato e che nessun altro avrebbe potuto apportargli. Questa conversione dello sguardo la rende possibile solo l’impegno. E al cuore di detto impegno, una indignazione profonda, umanistica, etica. La nostra società politica ne ha bisogno.

E questo impegno che voi portate, io ne ho bisogno per il nostro Paese come ne ho bisogno per la nostra Europa. Perché il nostro rischio principale, oggi, è l’anomia, è l’atonia, è l’assopimento. Abbiamo troppi concittadini che pensano che ciò che è stato acquisito sia diventato naturale; che dimenticano le grandi oscillazioni a cui la nostra società e il nostro continente sono oggi sottomessi. Vogliono pensare che ciò non sia mai stato, dimenticando che la nostra Europa non vive che al principio di una parentesi dorata che non conta più di 70 anni di pace, ma che di per sé è stata sempre dilaniata da guerre. Troppi nostri concittadini pensano che la fraternità di cui si parla sia una questione di denaro pubblico e di politica pubblica, e che non ci sarebbe una loro parte indispensabile in tutte le battaglie che sono al cuore dell’impegno politico contemporaneo. I parlamentari qui presenti le portano nella loro parte di verità, che si tratti di lottare contro il riscaldamento climatico, di lottare per un’Europa che protegga e che riveda le proprie ambizioni in vista di una società più giusta, ma non saranno possibili se a tutti i livelli della società non saranno accompagnati da un impegno politico profondo, un impegno politico al quale io chiamo i cattolici, per il nostro Paese e per la nostra Europa.

Il dono dell’impegno che vi domando è questo: non restate sulla soglia. Non rinunciate alla Républiqueche tanto fortemente avete contribuito a forgiare. Non rinunciate a questa Europa, di cui voi avete nutrito il senso. Non lasciate in malora le terre che voi avete seminato. Non sottraete alla République la preziosa rettitudine  che tanti anonimi fedeli apportano con la loro vita di cittadini.

Al cuore di quest’impegno, di cui il nostro Paese ha bisogno, c’è la parte d’indignazione e di fiducia nell’avvenire che voi potete apportare.

Tuttavia, per rassicurarvi, non è un arruolamento che sono venuto a proporvi. E sono anzi venuto a domandarvi un terzo dono che voi potete fare alla nazione, ed è precisamente quello della vostra libertà.

* * *

Condividere il cammino non significa sempre marciare col medesimo passo.

Mi ricordo di quel bel testo in cui Emmanuel Mounier spiega che la Chiesa, in politica, è sempre stata al contempo all’avanguardia e in ritardo. Mai esattamente contemporanea. Mai completamente del suo tempo. Questo fa digrignare i denti a qualcuno…

Ma bisogna accettare tale tempo sfalsato. Bisogna accettare che non tutto, nel nostro mondo, segua il medesimo ritmo. E la prima libertà di cui la Chiesa può fare dono è quella di essere intempestiva. Alcuni la trovano reazionaria. Altri, su altri argomenti, perfino troppo audace. Io credo semplicemente che essa debba essere uno di quei punti fissi di cui la nostra umanità ha bisogno tra i marosi di questo mondo divenuto oscillante. Uno di quei punti di riferimento che non cedono agli umori dei tempi.

Ecco perché, Monsignore, Signore e Signori, ci toccherà procedere passo passo col vostro lato intempestivo e con la necessità, che io avrò, di stare nel tempo del Paese. Ed è questo squilibrio costante che ci farà camminare insieme.

«La vita attiva – diceva Gregorio – è servizio, la vita contemplativa è libertà»: mentre ricordo l’importanza di questa parte intempestiva e del punto fisso che voi potete rappresentare, stasera vorrei avere un pensiero per tutte quelle e tutti quelli che si sono impegnati in una vita reclusa, o una vita comunitaria, una vita di preghiera e di lavoro. Anche se ad alcuni essa sembra fuori tempo, questo tipo di vita è pure l’esercizio di una libertà. Essa dimostra che il tempo della Chiesa non è quello del mondo, e certamente non è quello della politica così come va oggi – anche questo è un bene.

Ciò che mi aspetto che la Chiesa ci offra è anche la propria libertà di parola. Abbiamo parlato di allerta lanciati dalle associazioni o dall’episcopato. Penso anche agli ammonimenti del Papa, che trova nell’adesione costante al reale di che richiamare le esigenze della condizione umana. Questa libertà di parola, in un’epoca in cui i diritti fioriscono, presenta sovente la particolarità di richiamare ai doveri dell’uomo. Verso sé stesso, verso il prossimo o verso il nostro pianeta.

La semplice menzione dei doveri che ci si impongono è talvolta irritante. Questa voce che sa dire cosa seccanti i nostri concittadini l’ascoltano, anche se sono lontani dalla Chiesa. È una voce che non è priva di quell’ironia «talvolta tenera, talvolta gelida» di cui parlava Jean Grosjean nel suo commentario su Paolo. Una voce che come poche altre sa sovvertire le certezze ricacciandole nei propri ranghi.

Questa voce che si fa ora rivoluzionaria, ora conservatrice e spesso entrambe le cose insieme, come diceva Luca nei suoi Paradossi, è importante per la nostra società. Bisogna essere molto liberi per osare di essere paradossali, e bisogna essere paradossali per essere veramente liberi. È quanto ci ricordano i migliori scrittori cattolici, da Maurice Clave ad Alexis Jenni, da Georges Bernanos a Sylvie Germain, da Paul Claudel a François Sureau, da François Mauriac a Florence Delay, da Julien Green a Christiane Rancé.

In questa libertà di parola, di sguardo che è il loro, noi troviamo una parte di ciò che può rischiarare la nostra società. E in questa libertà di parola io relego la volontà della Chiesa di avviare, di condurre e di rafforzare il libero dialogo con l’islam, di cui il mondo ha tanto bisogno, e che lei ha evocato.

Perché non c’è comprensione dell’islam che non passi dal clero, come non c’è dialogo interreligioso senza religioni.

Questi luoghi lo testimoniano: il pluralismo religioso è un dato fondamentale del sonoro tempo. Mons. Lustiger ne aveva avuto forte l’intuizione quando volle far rivivere il Collège des Bernardins per accogliere tutti i dialoghi. La storia gli ha dato ragione. Non c’è cosa più urgente, oggi, che accrescere la mutua conoscenza fra i popoli, fra le culture, fra le religioni. E non c’è altra via, per questo, se non l’incontro: mediante la voce, ma anche mediante i libri e il lavoro condiviso – tutte cose di cui Benedetto XVI aveva raccontato il radicamento nel pensiero cistercense in occasione del suo passaggio qui, nel 2008.

Questa condivisione si esercita in piena libertà, ciascuno nei propri termini e sulle proprie basi. È il solco indispensabile del lavoro che lo Stato da parte sua deve condurre per pensare sempre di nuovo il posto delle religioni nella società e la relazione tra religioni, società e potere pubblico. E per questo, io conto molto su di voi, su tutti voi, per nutrire questo dialogo e radicarlo nella nostra storia comune, che ha le sue particolarità ma di cui la particolarità è di aver sempre attribuito alla nazione francese la capacità di pensare gli universali. Questa condivisione, questo lavoro, noi lo conduciamo risolutamente, dopo tanti di esitazione o di rinuncia. E i mesi a venire saranno decisivi, a tale riguardo.

Questa condivisione che intrattenete è tanto più importante in quanto i cristiani pagano con la loro vita l’attaccamento al pluralismo religioso. Penso ai cristiani d’Oriente. Il politico* condivide con la Chiesa la responsabilità di questi perseguitati. Perché non solamente abbiamo ereditato dalla storia il dovere di proteggerli, ma sappiamo che ovunque essi siano, essi sono l’emblema della tolleranza religiosa. Ci tengo a salutare l’ammirabile lavoro compiuto da movimenti come l’Œuvre d’Orient, Caritas France e la Comunità di Sant’Egidio per permettere l’accoglienza sul territorio nazionale delle famiglie rifugiate, e per soccorrerli sul campo col sostegno dello Stato.

Come dissi in occasione dell’inaugurazione della mostra Cristiani d’Oriente, all’Institut du Monde Arabe il 25 settembre scorso, l’avvenire di questa parte del mondo non si farà senza la partecipazione di tutte le minoranze, di tutte le religioni e in particolare dei Cristiani d’Oriente. Sacrificarli – come alcuni vorrebbero –, dimenticarli, significa rendere certo che nessuna stabilità, nessun progetto si costruirà durevolmente in quella regione.

E c’è infine un’ultima libertà di cui la Chiesa deve farci dono, è la libertà spirituale.

Perché noi non siamo fatti per un mondo che non sia attraversato se non per scopi materialistici. I nostri contemporanei hanno bisogno – lo credano o meno – di sentir parlare di un’altra prospettiva sull’uomo, che non sia quella semplicemente materiale. Hanno bisogno di estinguere un’altra sete, che è quella di assoluto. Non si tratta qui di conversione, ma di una voce che, insieme con delle altre, osi ancora parlare dell’uomo come di un vivente dotato di spirito. Che osi parlare d’altro che del temporale, ma senza abdicare alla ragione né al reale. Che osi andare nell’intensità di una speranza e che, talvolta, ci faccia toccare con mano quel mistero dell’umanità che si chiama la santità, di cui Papa Francesco dice, nell’esortazione pubblicata oggi, che è «il volto più bello della Chiesa».

Questa libertà è quella di essere voi stessi. Senza cercare di compiacere né di sedurre. Ma compiendo la vostra opera nella pienezza del suo senso. Nella regola che le è propria e che da sempre ci vale pensieri forti, una teologia umana, una Chiesa che sa guidare i più ferventi come i non battezzati, gli uomini saldi come quelli esclusi.

* * *

Una Chiesa trionfante tra gli uomini non dovrebbe temere di aver già compromesso tutta la propria elezione, avendo accettato un compromesso col mondo?

Questa domanda non è mia: sono parole di Jean-Luc Marion, che dovrebbero giungere come un balsamo alla Chiesa e ai cattolici nelle ore del dubbio sul posto dei cattolici in Francia, su quanto la Chiesa venga ascoltata, sulla considerazione che viene loro accordata. La Chiesa non è del mondo, assolutamente, e non deve esserlo. Noi che siamo alle prese col temporale lo sappiamo e non dobbiamo tentare di trascinarvela integralmente, non più di quanto dobbiamo fare con alcuna altra religione. Non è il nostro compito e non è il loro posto.

Ma questo non esclude la fiducia e non esclude il dialogo. Soprattutto, questo non esclude il mutuo riconoscimento delle nostre forze e delle nostre debolezze, delle nostre imperfezioni istituzionali e umane.

Perché viviamo in un’epoca in cui l’alleanza delle buone volontà è troppo preziosa per tollerare che esse perdano tempo a giudicarsi a vicenda. Dobbiamo ammettere una volta per tutte la scomodità di un dialogo che riposa sulla disparità delle nostre nature, ma anche ammettere la necessità di questo dialogo, perché operiamo – ciascuno nel nostro ordine proprio – per dei fini comuni, che sono la dignità e il senso.

Certo, le istituzioni politiche non hanno le promesse dell’eternità; ma la Chiesa stessa non può correre il rischio di estirpare anzitempo il grano e la zizzania. E in questo punto mediano in cui ci troviamo, in cui abbiamo ricevuto il carico dell’eredità dell’uomo e del mondo, sì, se sappiamo giudicare le cose con esattezza, potremo compiere grandi cose insieme.

Forse questo significa assegnare alla Chiesa di Francia una responsabilità esorbitante, ma essa è commisurata alla nostra storia, e il nostro incontro di stasera attesta, penso, che voi siete pronti per questo.

Monsignore, Signore e Signori, in ogni caso sappiate che anche io sono pronto.

Vi ringrazio.

[traduzione a cura © di Giovanni Marcotullio]

mercoledì 7 febbraio 2018

«Per il dilagare dell’iniquità, si raffredderà l’amore di molti» Messaggio per la Quaresima 2018

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MESSAGGIO DEL SANTO PADRE
FRANCESCO
PER LA QUARESIMA 2018

«Per il dilagare dell’iniquità, si raffredderà l’amore di molti» (Mt 24,12)

Cari fratelli e sorelle,
ancora una volta ci viene incontro la Pasqua del Signore! Per prepararci ad essa la Provvidenza di Dio ci offre ogni anno la Quaresima, «segno sacramentale della nostra conversione»,[1] che annuncia e realizza la possibilità di tornare al Signore con tutto il cuore e con tutta la vita.
Anche quest’anno, con il presente messaggio, desidero aiutare tutta la Chiesa a vivere con gioia e verità in questo tempo di grazia; e lo faccio lasciandomi ispirare da un’espressione di Gesù nel Vangelo di Matteo: «Per il dilagare dell’iniquità l’amore di molti si raffredderà» (24,12).
Questa frase si trova nel discorso che riguarda la fine dei tempi e che è ambientato a Gerusalemme, sul Monte degli Ulivi, proprio dove avrà inizio la passione del Signore. Rispondendo a una domanda dei discepoli, Gesù annuncia una grande tribolazione e descrive la situazione in cui potrebbe trovarsi la comunità dei credenti: di fronte ad eventi dolorosi, alcuni falsi profeti inganneranno molti, tanto da minacciare di spegnere nei cuori la carità che è il centro di tutto il Vangelo.

I falsi profeti
Ascoltiamo questo brano e chiediamoci: quali forme assumono i falsi profeti?
Essi sono come “incantatori di serpenti”, ossia approfittano delle emozioni umane per rendere schiave le persone e portarle dove vogliono loro. Quanti figli di Dio sono suggestionati dalle lusinghe del piacere di pochi istanti, che viene scambiato per felicità! Quanti uomini e donne vivono come incantati dall’illusione del denaro, che li rende in realtà schiavi del profitto o di interessi meschini! Quanti vivono pensando di bastare a sé stessi e cadono preda della solitudine!
Altri falsi profeti sono quei “ciarlatani” che offrono soluzioni semplici e immediate alle sofferenze, rimedi che si rivelano però completamente inefficaci: a quanti giovani è offerto il falso rimedio della droga, di relazioni “usa e getta”, di guadagni facili ma disonesti! Quanti ancora sono irretiti in una vita completamente virtuale, in cui i rapporti sembrano più semplici e veloci per rivelarsi poi drammaticamente privi di senso! Questi truffatori, che offrono cose senza valore, tolgono invece ciò che è più prezioso come la dignità, la libertà e la capacità di amare. E’ l’inganno della vanità, che ci porta a fare la figura dei pavoni… per cadere poi nel ridicolo; e dal ridicolo non si torna indietro. Non fa meraviglia: da sempre il demonio, che è «menzognero e padre della menzogna» (Gv 8,44), presenta il male come bene e il falso come vero, per confondere il cuore dell’uomo. Ognuno di noi, perciò, è chiamato a discernere nel suo cuore ed esaminare se è minacciato dalle menzogne di questi falsi profeti. Occorre imparare a non fermarsi a livello immediato, superficiale, ma riconoscere ciò che lascia dentro di noi un’impronta buona e più duratura, perché viene da Dio e vale veramente per il nostro bene.

Un cuore freddo
Dante Alighieri, nella sua descrizione dell’inferno, immagina il diavolo seduto su un trono di ghiaccio;[2] egli abita nel gelo dell’amore soffocato. Chiediamoci allora: come si raffredda in noi la carità? Quali sono i segnali che ci indicano che in noi l’amore rischia di spegnersi?
Ciò che spegne la carità è anzitutto l’avidità per il denaro, «radice di tutti i mali» (1 Tm 6,10); ad essa segue il rifiuto di Dio e dunque di trovare consolazione in Lui, preferendo la nostra desolazione al conforto della sua Parola e dei Sacramenti.[3] Tutto ciò si tramuta in violenza che si volge contro coloro che sono ritenuti una minaccia alle nostre “certezze”: il bambino non ancora nato, l’anziano malato, l’ospite di passaggio, lo straniero, ma anche il prossimo che non corrisponde alle nostre attese.
Anche il creato è testimone silenzioso di questo raffreddamento della carità: la terra è avvelenata da rifiuti gettati per incuria e interesse; i mari, anch’essi inquinati, devono purtroppo ricoprire i resti di tanti naufraghi delle migrazioni forzate; i cieli – che nel disegno di Dio cantano la sua gloria – sono solcati da macchine che fanno piovere strumenti di morte.
L’amore si raffredda anche nelle nostre comunità: nell’Esortazione apostolica Evangelii gaudium ho cercato di descrivere i segni più evidenti di questa mancanza di amore. Essi sono: l’accidia egoista, il pessimismo sterile, la tentazione di isolarsi e di impegnarsi in continue guerre fratricide, la mentalità mondana che induce ad occuparsi solo di ciò che è apparente, riducendo in tal modo l’ardore missionario.[4]

Cosa fare?
Se vediamo nel nostro intimo e attorno a noi i segnali appena descritti, ecco che la Chiesa, nostra madre e maestra, assieme alla medicina, a volte amara, della verità, ci offre in questo tempo di Quaresima il dolce rimedio della preghiera, dell’elemosina e del digiuno.
Dedicando più tempo alla preghiera, permettiamo al nostro cuore di scoprire le menzogne segrete con le quali inganniamo noi stessi,[5] per cercare finalmente la consolazione in Dio. Egli è nostro Padre e vuole per noi la vita.
L’esercizio dell’elemosina ci libera dall’avidità e ci aiuta a scoprire che l’altro è mio fratello: ciò che ho non è mai solo mio. Come vorrei che l’elemosina si tramutasse per tutti in un vero e proprio stile di vita! Come vorrei che, in quanto cristiani, seguissimo l’esempio degli Apostoli e vedessimo nella possibilità di condividere con gli altri i nostri beni una testimonianza concreta della comunione che viviamo nella Chiesa. A questo proposito faccio mia l’esortazione di san Paolo, quando invitava i Corinti alla colletta per la comunità di Gerusalemme: «Si tratta di cosa vantaggiosa per voi» (2 Cor 8,10). Questo vale in modo speciale nella Quaresima, durante la quale molti organismi raccolgono collette a favore di Chiese e popolazioni in difficoltà. Ma come vorrei che anche nei nostri rapporti quotidiani, davanti a ogni fratello che ci chiede un aiuto, noi pensassimo che lì c’è un appello della divina Provvidenza: ogni elemosina è un’occasione per prendere parte alla Provvidenza di Dio verso i suoi figli; e se Egli oggi si serve di me per aiutare un fratello, come domani non provvederà anche alle mie necessità, Lui che non si lascia vincere in generosità?[6]
Il digiuno, infine, toglie forza alla nostra violenza, ci disarma, e costituisce un’importante occasione di crescita. Da una parte, ci permette di sperimentare ciò che provano quanti mancano anche dello stretto necessario e conoscono i morsi quotidiani dalla fame; dall’altra, esprime la condizione del nostro spirito, affamato di bontà e assetato della vita di Dio. Il digiuno ci sveglia, ci fa più attenti a Dio e al prossimo, ridesta la volontà di obbedire a Dio che, solo, sazia la nostra fame.
Vorrei che la mia voce giungesse al di là dei confini della Chiesa Cattolica, per raggiungere tutti voi, uomini e donne di buona volontà, aperti all’ascolto di Dio. Se come noi siete afflitti dal dilagare dell’iniquità nel mondo, se vi preoccupa il gelo che paralizza i cuori e le azioni, se vedete venire meno il senso di comune umanità, unitevi a noi per invocare insieme Dio, per digiunare insieme e insieme a noi donare quanto potete per aiutare i fratelli!

Il fuoco della Pasqua
Invito soprattutto i membri della Chiesa a intraprendere con zelo il cammino della Quaresima, sorretti dall’elemosina, dal digiuno e dalla preghiera. Se a volte la carità sembra spegnersi in tanti cuori, essa non lo è nel cuore di Dio! Egli ci dona sempre nuove occasioni affinché possiamo ricominciare ad amare.
Una occasione propizia sarà anche quest’anno l’iniziativa “24 ore per il Signore”, che invita a celebrare il Sacramento della Riconciliazione in un contesto di adorazione eucaristica. Nel 2018 essa si svolgerà venerdì 9 e sabato 10 marzo, ispirandosi alle parole del Salmo 130,4: «Presso di te è il perdono». In ogni diocesi, almeno una chiesa rimarrà aperta per 24 ore consecutive, offrendo la possibilità della preghiera di adorazione e della Confessione sacramentale.
Nella notte di Pasqua rivivremo il suggestivo rito dell’accensione del cero pasquale: attinta dal “fuoco nuovo”, la luce a poco a poco scaccerà il buio e rischiarerà l’assemblea liturgica. «La luce del Cristo che risorge glorioso disperda le tenebre del cuore e dello spirito»,[7] affinché tutti possiamo rivivere l’esperienza dei discepoli di Emmaus: ascoltare la parola del Signore e nutrirci del Pane eucaristico consentirà al nostro cuore di tornare ad ardere di fede, speranza e carità.
Vi benedico di cuore e prego per voi. Non dimenticatevi di pregare per me.
Dal Vaticano, 1 novembre 2017 Solennità di Tutti i Santi
Francesco

[1] Messale Romano, I Dom. di Quaresima, Orazione Colletta.
[2] «Lo ’mperador del doloroso regno / da mezzo ’l petto uscia fuor de la ghiaccia» (Inferno XXXIV, 28-29).
[3] «E’ curioso, ma tante volte abbiamo paura della consolazione, di essere consolati. Anzi, ci sentiamo più sicuri nella tristezza e nella desolazione. Sapete perché? Perché nella tristezza ci sentiamo quasi protagonisti. Invece nella consolazione è lo Spirito Santo il protagonista» (Angelus, 7 dicembre 2014).
[4] Nn. 76-109.
[5] Cfr Benedetto XVI, Lett. Enc. Spe salvi, 33.
[6] Cfr Pio XII, Lett. Enc. Fidei donum, III.
[7] Messale Romano, Veglia Pasquale, Lucernario.


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lunedì 22 gennaio 2018

Consapevoli di sé con allegria, con negli occhi lo sguardo con cui Cristo ci chiama, amando in modo contagioso


INCONTRO CON I SACERDOTI, I RELIGIOSI, LE RELIGIOSE E I SEMINARISTI DELLE
CIRCOSCRIZIONI ECCLESIASTICHE DEL NORD DEL PERÙ
DISCORSO DEL SANTO PADRE
Collegio Seminario San Carlos y San Marcelo (Trujillo)
Sabato, 20 gennaio 2018



Cari fratelli e sorelle, buonasera!
[grande applauso] Siccome è consuetudine che l’applauso sia alla fine, vuol dire che già è finito, allora me ne vado… [gridano: No!] Ringrazio per le parole che Mons. José Antonio Eguren Anselmi, Arcivescovo di Piura, mi ha rivolto a nome di tutti i presenti.
Incontrarmi con voi, conoscervi, ascoltarvi e manifestare l’amore per il Signore e per la missione che ci ha donato è importante. So che avete fatto un grande sforzo per essere qui, grazie!
Ci accoglie questo Collegio Seminario, uno dei primi ad essere fondati in America Latina per la formazione di tante generazioni di evangelizzatori. Essere qui e insieme a voi fa percepire che ci troviamo in una di quelle “culle” che hanno dato alla luce tanti missionari. E non dimentico che questa terra ha visto morire, mentre era in missione – non seduto dietro a una scrivania –, San Toribio de Mogrovejo, patrono dell’Episcopato Latino-americano. E tutto ciò ci porta a guardare alle nostre radici, a quello che ci sostiene nel corso del tempo, ci sostiene nel corso della storia per crescere verso l’alto e portare frutto. Le radici. Senza radici non ci sono fiori, non ci sono frutti. Diceva un poeta che tutto quello che l’albero ha di fiorito gli viene da quello che ha sottoterra, le radici. Le nostre vocazioni avranno sempre quella duplice dimensione: radici nella terra e cuore nel cielo. Non dimenticate questo. Quando manca una di queste due, qualcosa comincia ad andare male e la nostra vita a poco a poco marcisce (cfr Lc 13,6-9), come un albero che non ha radici, marcisce. E vi dico che fa molto male vedere un vescovo, un sacerdote, una suora, “marciti”. E ancora più pena mi dà quando vedo seminaristi “marciti”. Questa è una cosa molto seria. La Chiesa è buona, la Chiesa è madre, e se voi vedete che non ce la fate, per favore, parlate finché siete in tempo, prima che sia tardi, prima di rendervi conto di non avere più radici e che state marcendo; così c’è ancora tempo per salvare, perché Gesù è venuto per questo, per salvare, e se ci ha chiamato è per salvare.
Mi piace sottolineare che la nostra fede, la nostra vocazione è ricca di memoria, quella dimensione deuteronomica della vita. Ricca di memoria perché sa riconoscere che né la vita, né la fede, né la Chiesa sono iniziate con la nascita di qualcuno di noi: la memoria si rivolge al passato per trovare la linfa che ha irrigato nei secoli il cuore dei discepoli, e in tal modo riconosce il passaggio di Dio nella vita del suo popolo. Memoria della promessa che Egli ha fatto ai nostri padri e che, quando rimane viva in mezzo a noi, è causa della nostra gioia e ci fa cantare: «Grandi cose ha fatto il Signore per noi: eravamo pieni di gioia» (Sal 125,3).
Mi piacerebbe condividere con voi alcune virtù, o alcune dimensioni, se preferite, di questo essere ricchi di memoria. Quando io dico che amo che un vescovo, un sacerdote, un seminarista sia ricco di memoria, cosa voglio dire? E’ questo che adesso vorrei condividere.
1. Una dimensione è la gioiosa coscienza di sé. Non bisogna essere incoscienti di sé stessi, no; sapere cosa sta succedendo, ma una gioiosa coscienza di sé.
Il Vangelo che abbiamo ascoltato (cfr Gv 1,35-42) lo leggiamo abitualmente in chiave vocazionale e così ci soffermiamo sull’incontro dei discepoli con Gesù. Mi piacerebbe, però, prima, guardare a Giovanni Battista. Egli stava con due dei suoi discepoli e vedendo passare Gesù dice loro: «Ecco l’Agnello di Dio» (Gv 1,36). Sentendo questo, che cosa è successo? Hanno lasciato Giovanni e sono andati con l’altro (cfr v. 37). E’ qualcosa di sorprendente: erano stati con Giovanni, sapevano che era un uomo buono, anzi, il più grande tra i nati di donna, come Gesù lo definisce (cfr Mt 11,11), però non era colui che doveva venire. Anche Giovanni aspettava un altro più grande di lui. Giovanni aveva ben chiaro di non essere il Messia ma semplicemente colui che lo annunciava. Giovanni era l’uomo ricco della memoria della promessa e della propria storia. Era famoso, aveva una grande fama, tutti venivano a farsi battezzare da lui, lo ascoltavano con rispetto. La gente credeva che lui fosse il Messia, ma lui era ricco di memoria della propria storia e non si è lasciato ingannare dall’incenso della vanità.
Giovanni manifesta la coscienza del discepolo che sa che non è e non sarà mai il Messia, ma solo uno chiamato a indicare il passaggio del Signore nella vita della sua gente. Mi impressiona come Dio permetta che questo arrivi fino alle estreme conseguenze: muore decapitato in una cella, così semplicemente. Noi consacrati non siamo chiamati a soppiantare il Signore, né con le nostre opere, né con le nostre missioni, né con le innumerevoli attività che abbiamo da fare. Io quando dico “consacrati” comprendo tutti: vescovi, sacerdoti, uomini e donne consacrati e consacrate, religiosi e religiose, e seminaristi. Semplicemente ci viene chiesto di lavorare con il Signore, fianco a fianco, ma senza mai dimenticare che non occupiamo il suo posto. E questo non ci fa “afflosciare” nell’impegno di evangelizzare, ma al contrario, ci spinge, ci chiede di lavorare ricordando che siamo discepoli dell’unico Maestro. Il discepolo sa che asseconda e sempre asseconderà il Maestro. E questa è la fonte della nostra gioia, la gioiosa coscienza di sé.
Ci fa bene sapere che non siamo il Messia! Ci libera dal crederci troppo importanti, troppo occupati (è tipico di alcune zone sentire: “No, non andare in quella parrocchia perché il sacerdote è sempre molto occupato”). Giovanni Battista sapeva che la sua missione era indicare la strada, iniziare processi, aprire spazi, annunciare che un Altro era colui che portava lo Spirito di Dio. Essere ricchi di memoria ci libera dalla tentazione dei messianismi, che io mi creda il Messia.
Questa tentazione si combatte in molti modi, ma anche col saper ridere. Di un religioso a cui volevo molto bene – un gesuita, un gesuita olandese che è morto l’anno scorso – si diceva che avesse un tale senso dell’umorismo che era capace di ridere di tutto quello che succedeva, di sé stesso e anche della propria ombra. Coscienza gioiosa. Imparare a ridere di sé stessi ci dà la capacità spirituale di stare davanti al Signore coi propri limiti, errori e peccati, ma anche coi propri successi, e con la gioia di sapere che Egli è al nostro fianco. Un bel test spirituale è quello di interrogarci sulla capacità che abbiamo di ridere di noi stessi. Degli altri è facile ridere – vero? –, “spellarli vivi”, ma ridere di noi stessi non è facile. Ridere ci salva dal neopelagianesimo «autoreferenziale e prometeico di coloro che in definitiva fanno affidamento unicamente sulle proprie forze e si sentono superiori agli altri».[1] Ridi. Ridete in comunità, e non della comunità o degli altri! Guardiamoci da quelle persone così importanti che nella vita hanno dimenticato come si fa a sorridere. “Sì, Padre, però lei non ha un rimedio, qualcosa per…?”. Guarda, ho due “pastiglie” che aiutano moltissimo: una, parla con Gesù, con la Madonna nella preghiera e chiedi la grazia della gioia, della gioia nella situazione reale; la seconda pastiglia la puoi prendere varie volte al giorno se ne hai bisogno, o anche una volta basta: guardati allo specchio…, guardati allo specchio: “E quello sono io? Quella sono io? [fa una risata]”. E questo ti fa ridere. Questo non è narcisismo, anzi, è il contrario: lo specchio, in questo caso, serve come una cura.
Dunque, la prima cosa era la gioiosa coscienza di sé stessi.

2. La seconda è l’ora della chiamata, farci carico dell’ora della chiamata.
Giovanni l’Evangelista riporta nel suo Vangelo persino l’ora di quel momento che cambiò la sua vita. Sì, quando il Signore fa crescere in una persona la coscienza di essere chiamata…, si ricorda quando è incominciato tutto: «Erano circa le quattro del pomeriggio» (1,39). L’incontro con Gesù cambia la vita, stabilisce un prima e un poi. Fa bene ricordare sempre quell’ora, quel giorno-chiave per ciascuno di noi, nel quale ci siamo accorti, seriamente, che quello che sentivo non era una voglia o un’attrazione ma che il Signore si aspettava qualcosa di più. E allora ci si può ricordare: quel giorno mi sono reso conto. La memoria di quell’ora in cui siamo stati toccati dal suo sguardo.
Quando ci dimentichiamo di questa ora, ci dimentichiamo delle nostre origini, delle nostre radici; e perdendo queste coordinate fondamentali mettiamo da parte la cosa più preziosa che una persona consacrata può avere: lo sguardo del Signore. “No, Padre, io guardo il Signore nel tabernacolo”. Va bene, questo va bene. Ma siediti un momento, e lasciati guardare, e ricorda le volte in cui Lui ti ha guardato e ti sta guardando. Lasciati guardare da Lui”. E’ la cosa più preziosa che ha un consacrato: lo sguardo del Signore. Forse non sei contento del luogo dove ti ha incontrato il Signore, forse non si adegua a una situazione ideale o che ti “sarebbe piaciuta di più”. Eppure è stato lì che ti ha incontrato e ha curato le tue ferite, lì. Ciascuno di noi conosce il dove e il quando: forse in un momento di situazioni complicate, di situazioni dolorose, sì; ma lì ti ha incontrato il Dio della Vita per renderti testimone della sua Vita, per renderti parte della sua missione e farti essere, con Lui, carezza di Dio per molti. Ci fa bene ricordare che le nostre vocazioni sono una chiamata di amore per amare, per servire. Non per prendere una “fetta” per noi stessi. Se il Signore si è innamorato di voi e vi ha scelti, non è stato perché eravate più numerosi degli altri, anzi siete il popolo più piccolo, ma per amore (cfr Dt 7,7-8)! Così dice il Deuteronomio al popolo di Israele. Non darti tante arie: non sei il popolo più importante, no, sei un po’ scadente, ma Lui si è innamorato di questo, e allora, che volete?, il Signore non ha buon gusto, si è innamorato di questo… Amore viscerale, amore di misericordia che commuove le nostre viscere per andare a servire gli altri alla maniera di Gesù Cristo. Non alla maniera dei farisei, dei sadducei, dei dottori della legge, degli zeloti, no, no, quelli cercavano la loro gloria.
Vorrei soffermarmi su un aspetto che considero importante. Molti, nel momento di entrare in Seminario o nella casa di formazione o al noviziato, eravamo formati con la fede delle nostre famiglie e delle persone vicine. Lì abbiamo imparato a pregare, dalla mamma, dalla nonna, dalla zia, e poi è stata la catechista che ci ha preparato… E così abbiamo fatto i nostri primi passi, appoggiati non di rado alle manifestazioni di pietà e spiritualità popolare che in Perù hanno trovato le forme più stupende e il radicamento nel popolo fedele e semplice. Il vostro popolo ha dimostrato un enorme affetto per Gesù, la Madonna, per i Santi e i Beati, con tante devozioni che non oso nominare per timore di tralasciarne qualcuna. In quei santuari, «molti pellegrini prendono decisioni che segnano la loro vita. Quelle pareti racchiudono molte storie di conversione, di perdono e di doni ricevuti, che milioni di persone potrebbero raccontare».[2] Anche molte delle vostre vocazioni possono essere impresse tra quelle pareti. Vi esorto, per favore, a non dimenticare, e tanto meno a disprezzare, la fede semplice e fedele del vostro popolo. Sappiate accogliere, accompagnare e stimolare l’incontro con il Signore. Non trasformatevi in professionisti del sacro che si dimenticano del loro popolo, da dove vi ha tratto il Signore: “da dietro il gregge”, come dice il Signore al suo eletto [Davide] nella Bibbia. Non perdete la memoria e il rispetto per coloro che vi hanno insegnato a pregare.
Mi è successo che, in riunioni con maestri e maestre di novizi, o rettori di seminari, padri spirituali di seminario, è uscita la domanda: “Come insegniamo a pregare a quelli che entrano?”. Allora, danno dei manuali per imparare a meditare – a me lo hanno dato quando sono entrato. “Per questo fai così”, “quello no”, “prima devi fare questo”, “poi quest’altro passo”… E in generale, gli uomini e le donne più saggi, che hanno questo incarico di maestri di novizi, di padri spirituali, di direttori spirituali dei seminari, scelgono: “Continua a pregare come ti hanno insegnato a casa”. E poi, a poco a poco, li fanno avanzare in un altro tipo di preghiera. Ma prima: “continua a pregare come ti ha insegnato tua madre, come ti ha insegnato tua nonna”; che del resto è il consiglio che San Paolo dà a Timoteo: “La fede di tua madre e di tua nonna: è questa che devi seguire”. Non disprezzate la preghiera di casa, perché è la più forte.
Ricordare l’ora della chiamata, fare memoria gioiosa del passaggio di Gesù nella nostra vita, ci aiuterà a dire quella bella preghiera di San Francisco Solano, grande predicatore e amico dei poveri: «Mio buon Gesù, mio Redentore e amico. Che cosa possiedo che Tu non mi abbia dato? Che cosa so che Tu non mi abbia insegnato?».
In questo modo, il religioso, il sacerdote, la consacrata, il consacrato, il seminarista è una persona ricca di memoria, gioiosa e riconoscente: trinomio da fissare e da tenere come “arma” di fronte ad ogni “mascheramento” vocazionale. La coscienza grata allarga il cuore e ci stimola al servizio. Senza gratitudine possiamo essere buoni esecutori del sacro, ma ci mancherà l’unzione dello Spirito per diventare servitori dei nostri fratelli, specialmente dei più poveri. Il Popolo fedele di Dio possiede l’olfatto e sa distinguere tra il funzionario del sacro e il servitore grato. Sa distinguere chi è ricco di memoria e chi è smemorato. Il Popolo di Dio sa sopportare, ma riconosce chi lo serve e lo cura con l’olio della gioia e della gratitudine. In questo lasciatevi consigliare dal popolo di Dio. Qualche volta, nelle parrocchie, succede che quando il sacerdote si perde un po’ e si dimentica della sua gente – sto parlando di storie reali, non è vero? – quante volte la signora anziana della sacrestia – come la chiamano: “la vecchia della sagrestia” – gli dice: “Caro padre, quanto tempo è che non va a trovare sua mamma? Vada, vada a trovare sua mamma, che noi per una settimana ci arrangiamo col Rosario”.

3. Terzo, la gioia contagiosa. La gioia è contagiosa quando è vera. Andrea era uno dei discepoli di Giovanni Battista che aveva seguito Gesù quel giorno. Dopo essere stato con Lui e aver visto dove viveva, tornò a casa di suo fratello Simon Pietro e gli disse: «Abbiamo trovato il Messia» (Gv 1,41). E lì fu contagiato. Questa è la notizia più grande che poteva dargli, e lo condusse a Gesù. La fede in Gesù è contagiosa. E se c’è un sacerdote, un vescovo, una suora, un seminarista, un consacrato che non contagia, è un asettico, è da laboratorio. Che esca e si sporchi un po’ le mani e poi incomincerà a contagiare l’amore di Gesù. La fede in Gesù è contagiosa, non può essere confinata né rinchiusa; e qui si vede la fecondità della testimonianza: i discepoli appena chiamati attraggono a loro volta altri mediante la loro testimonianza di fede, allo stesso modo in cui, nel brano evangelico, Gesù ci chiama per mezzo di altri. La missione scaturisce spontanea dall’incontro con Cristo. Andrea inizia il suo apostolato dai più vicini, da suo fratello Simone, quasi come qualcosa di naturale, irradiando gioia. Questo è il miglior segno del fatto che abbiamo “scoperto” il Messia. La gioia contagiosa è una costante nel cuore degli Apostoli, e la vediamo nella forza con cui Andrea confida a suo fratello: “Lo abbiamo incontrato!”. Dunque «la gioia del Vangelo riempie il cuore e la vita intera di coloro che si incontrano con Gesù. Coloro che si lasciano salvare da Lui sono liberati dal peccato, dalla tristezza, dal vuoto interiore, dall’isolamento. Con Gesù Cristo sempre nasce e rinasce la gioia».[3] E questa è contagiosa.
Questa gioia ci apre agli altri, è una gioia non da tenere per sé, ma da trasmettere. Nel mondo frammentato in cui ci è dato di vivere, che ci spinge ad isolarci, la sfida per noi è essere artefici e profeti di comunità. Voi lo sapete, nessuno si salva da solo. E in questo vorrei essere chiaro. La frammentazione e l’isolamento non è qualcosa che si verifica “fuori”, come se fosse solo un problema del “mondo” in cui ci tocca vivere. Fratelli, le divisioni, le guerre, gli isolamenti li viviamo anche dentro le nostre comunità, dentro i nostri presbitéri, dentro le nostre Conferenze episcopali, e quanto male ci fanno! Gesù ci invia ad essere portatori di comunione, di unità, ma tante volte sembra che lo facciamo disuniti e, quello che è peggio, facendoci spesso gli sgambetti a vicenda. O mi sbaglio? [rispondono: No!] Chiniamo la testa e ciascuno “metta nel proprio sacco” quello gli tocca. Ci è chiesto di essere artefici di comunione e di unità; che non equivale a pensare tutti allo stesso modo, fare tutti le stesse cose. Significa apprezzare gli apporti, le differenze, il dono dei carismi all’interno della Chiesa sapendo che ciascuno, a partire dalla propria specificità, offre il proprio contributo, ma ha bisogno degli altri. Solo il Signore ha la pienezza dei doni, solo Lui è il Messia. E ha voluto distribuire i suoi doni in maniera tale che tutti possiamo offrire il nostro arricchendoci con quelli degli altri. Occorre guardarsi dalla tentazione del “figlio unico” che vuole tutto per sé, perché non ha con chi condividere. E’ viziato il ragazzo! A coloro che devono esercitare incarichi nel servizio dell’autorità chiedo, per favore, di non diventare autoreferenziali; cercate di prendervi cura dei vostri fratelli, fate in modo che stiano bene, perché il bene è contagioso. Non cadiamo nella trappola di un’autorità che si trasforma in autoritarismo dimenticando che, prima di tutto, è una missione di servizio. Quelli che hanno questa missione di essere autorità, riflettano bene: negli eserciti ci sono abbastanza sergenti, non c’è bisogno di metterli nella nostra comunità.
Vorrei dire, prima di concludere: essere ricchi di memoria e avere radici. Ritengo importante che nelle nostre comunità, nei nostri presbitéri si mantenga viva la memoria e ci sia il dialogo tra i più giovani e i più anziani. I più anziani sono ricchi di memoria e ci danno la memoria. Dobbiamo andare a riceverla, non lasciamoli soli. Loro [gli anziani], a volte, non vogliono parlare, qualcuno si sente un po’ abbandonato… Facciamolo parlare, soprattutto voi giovani. Quelli chi hanno l’incarico della formazione dei giovani, dicano loro di parlare coi sacerdoti anziani, con le suore anziane, con i vescovi anziani… - Dicono che le suore non invecchiano perché sono eterne! – dite loro di parlare. Gli anziani hanno bisogno che facciate loro brillare gli occhi e che vedano che nella Chiesa, nel presbiterio, nella Conferenza episcopale, nel convento ci sono giovani che portano avanti il corpo della Chiesa. Che li sentano parlare, che i giovani facciano domande a loro, e così a loro incominceranno a brillare gli occhi, e incominceranno a sognare. Fate sognare gli anziani. E’ la profezia di Gioele 3,1. Fate sognare gli anziani. E se i giovani fanno sognare gli anziani, vi assicuro che gli anziani faranno profetizzare i giovani.
Andare alle radici. Per questo volevo – sto già terminando – citare un Santo Padre, ma non me ne viene in mente nessuno. Ma citerò un Nunzio apostolico. Lui mi diceva, parlando di questo, un antico proverbio africano che ha imparato quando era lì – perché i Nunzi apostolici prima passano per l’Africa e lì imparano molte cose – e il proverbio era: “I giovani camminano velocemente – e lo devono fare –, ma sono i vecchi che conoscono la strada”. Va bene?

Cari fratelli, nuovamente grazie; e che questa memoria deuteronomica ci renda più gioiosi e grati per essere servitori di unità in mezzo al nostro popolo. Lasciatevi guardare dal Signore; andate a cercare il Signore, lì, nella memoria. Guardatevi allo specchio, ogni tanto. E che il Signore vi benedica, la Vergine Santa vi protegga, e qualche volta, come dicono in campagna, “fatemi” una preghiera. Grazie!

[1] Esort. Ap. Evangelii gaudium, 94.
[2] Cfr V Conferenza Generale dell’Episcopato Latino-americano e dei Caraibi, Documento di Aparecida (29 giugno 2007), 260.
[3] Esort. Ap. Evangelii gaudium, 1.